L'ICONOCLASTA

La guerra all’Isis e la pericolosa inerzia degli Stati Uniti

Pubblichiamo il mio editoriale uscito stamattina sul Corriere della Sera, nel quale sostengo che per combattere il Califfato sarebbero necessarie truppe di terra e una task force con Russia e Usa. Tuttavia, sarà difficile che Obama, presidente uscente, agisca, con tutti i rischi dell’immobilismo.

17 novembre 2015 – I tragici fatti di Parigi in queste ore hanno gettato una lunga ombra sul vertice del G20 appena conclusosi ad Antalya. La retorica di Barack Obama al summit sul tema dell’Isis è stata forte, drammatica, e purtroppo anche prevedibile. Mentre Vladimir Putin si è presentato in versione muscolare, il presidente americano è apparso più fievole, rispondendo ai giornalisti che non ha intenzione di cambiare la sua strategia.

Nella politica americana, e particolarmente nella campagna per la corsa alla Casa Bianca, gli attacchi a Parigi hanno creato un trambusto notevole, facendo scatenare dure critiche nei confronti di Hillary Clinton per aver commesso una serie di errori che avrebbero contribuito alla crescita dell’Isis, sulla Libia ma anche nella guerra contro Saddam. A rivolgere le accuse è stato il senatore del Vermont Bernie Sanders, e lo ha fatto sabato scorso, il giorno dopo gli attacchi a Parigi e durante il dibattito tra i candidati del Partito democratico.

Sanders ha parlato delle origini dell’Isis e ha criticato il voto di Hillary a favore dell’invasione dell’Iraq nel 2003: «Nessuno può dubitare del fatto che questo abbia portato l’instabilità che ha alimentato lo sviluppo dell’Isis» ha detto Sanders.

La signora Clinton ha cercato di difendersi, ma poi Sanders ha anche contestato l’idea di regime change che è stata alla base della politica estera di Hillary Clinton e Barack Obama durante e dopo la Primavera araba. Per la prima volta gli americani stanno cominciando a capire l’errore di aver buttato giù troppi dittatori, troppo velocemente e senza un’adeguata pianificazione per il dopo. Tra questi, il colonnello Gheddafi. Nel marzo 2011, prima e durante un vertice sulla Libia, presieduto da Nicola Sarkozy all’Eliseo, Hillary Clinton era apparsa un po’ incerta, cambiando idea in pochi giorni e decidendo di ignorare le obiezioni del Pentagono che temeva l’anarchia di una Libia dopo Gheddafi. Invece Clinton ha assistito con entusiasmo alla decisione di avviare il primo bombardamento delle truppe di Gheddafi. Era lì, a Parigi, che Hillary Clinton ha partecipato a un mini-vertice con Sarkozy, che ha poi fatto decollare i suoi caccia Rafale, ben prima dell’inizio del vertice.

L’accusa di Bernie Sanders contro Obama e Clinton è che i loro errori abbiano contribuito alla crescita dell’Isis anche in Libia. Per ironia della storia, mentre erano in corso venerdì sera gli attacchi a Parigi, il Pentagono stava bombardando un leader dell’Isis in Libia. Proprio sulla questione dell’Isis il presidente degli Stati Uniti non ha fatto una grande figura in questi giorni: Obama, poche ore prima degli attacchi a Parigi, ha annunciato in un’intervista televisiva che l’avanzata dell’Isis era stata bloccata. «Abbiamo contenuto l’Isis» ha detto lo sfortunato presidente americano. Durante il dibattito di sabato Hillary ha poi replicato: «L’Isis non si “contiene”, si sconfigge».

Hillary Clinton, Barack Obama, e tutti i politici americani quindi parlano con una forte determinazione quando discutono della guerra contro l’Isis. Ma questo non vuol dire che Washington sarà incisiva o efficace nella guerra contro lo Stato islamico. Il motivo? Barack Obama si è già mostrato timido, e talvolta incerto, non solo durante la Primavera araba ma anche di recente, davanti alle mosse di Vladimir Putin, sia sulla Crimea, sull’est dell’Ucraina o sull’intervento russo in Siria. Putin si è mostrato più abile come politico sulla scena internazionale, più veloce di Obama in ogni momento e più spietato nella sua volontà di mettere Mosca al vertice del potere mondiale, in particolare attraverso un attivismo militare nel Medio Oriente più robusto di quello che Obama sembra capace di offrire.

A mio avviso, per combattere l’Isis ci vogliono boots on the ground , ovvero truppe di terra in Siria, Libia e Iraq, con una vera e propria task force internazionale che comprenda la Russia, l’Europa e gli Usa, e tanti altri Paesi. Ma Obama non vuol cambiare strategia, e se si mettesse insieme a Putin in una vera lotta contro l’Isis, l’effetto potrebbe anche essere il riconoscimento de facto da parte di Washington dell’annessione della Crimea, una specie di grazia a Mosca nell’interesse comune di combattere il califfato. Personalmente la vedo difficile. Sarei sorpreso se Obama si impegnasse in questo modo. Putin invece sì, andrà avanti, anche in alleanza con l’Iran, che intanto mantiene crescenti rapporti con Pechino. Seguendo questa logica, e con un Obama probabilmente poco leader per i prossimi 15 mesi, fino al giuramento del suo successore nel gennaio 2017, il rischio ora è una specie di inerzia. In questo periodo di bagnomaria a Washington, Putin dovrebbe essere in grado di ritagliarsi uno spazio sempre più importante. La realtà è questa: Putin andrà avanti, Clinton non può fare niente per il momento, e Obama sembra un’anatra zoppa già da prima degli attacchi di Parigi.

Il vero rischio di un immobilismo a Washington, quindi, è che quando si insedierà il successore di Obama la mappa della geopolitica sarà già cambiata, con i giochi nel Medio Oriente, e in mezzo mondo, già fatti.

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