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L’ECONOMIST: Scozia, vince il NO. Ma per il Regno Unito la vera sfida inizia adesso

Cosa accadrà in Gran Bretagna dopo la vittoria del NO alla secessione? Lo spiega l’Economist in questo articolo, tradotto in italiano per voi.

Nel corso delle ultime settimane della campagna per il referendum scozzese era diventato un cliché dire che una vittoria del No avrebbe causato un terremoto politico quasi altrettanto violento che se avesse trionfato il Sì. Era un’esagerazione. Se il Sì avesse prevalso, avrebbe probabilmente sancito la fine della leadership di David Cameron. La sterlina sarebbe crollata. Un’unione lunga 307 anni sarebbe andata in frantumi. E sul piano internazionale, la Gran Bretagna avrebbe perso autorevolezza.

Ma per certi aspetti, il cliché era corretto. La vittoria del No – con il 55 per cento dei voti contro un 45 per cento di favorevoli – avrà grande risonanza, e non solo in Scozia.

Dopo aver tirato un profondo sospiro di sollievo, inizieranno le recriminazioni. Nessuno si aspettava che la distanza tra i due fronti si sarebbe così ridotta come nelle ultime settimane: due mesi fa, i sondaggi davano il No in vantaggio di più di 20 punti. E nessuno è esente da colpe. Il primo ministro ha dato la sua approvazione a un referendum che andava nella direzione dei nazionalisti; Alistair Darling ha condotto una campagna per il No insipida; il Labour ha perso contatto con la base dei lavoratori scozzesi; il mondo delle imprese era troppo debole per mettere in guardia dalle insidie dell’indipendenza.

Altri riconoscono che il No ha vinto ad un prezzo decisamente troppo alto. L’8 settembre scorso Gordon Brown, l’ex primo ministro laburista, ha detto agli scozzesi che sarebbero stati ricompensati con «una moderna forma di home rule» se fossero rimasti all’interno dell’Unione. Il parlamento avrebbe concesso velocemente nuovi poteri a Edimburgo, ha promesso Brown, aggiungendo che un progetto di legge sarebbe stato pubblicato entro la Burns Night (il 25 gennaio). La formula di Barnett [il meccanismo che regola i finanziamenti alla Scozia e alle altre istituzioni del Regno Unito, ndr], che assicura alla Scozia una gran quantità di denaro pubblico, continuerà a sopravvivere. I leader di tutti e tre i maggiori partiti politici hanno appoggiato la proposta di Brown, ma non tutti i membri del Parlamento hanno fatto lo stesso. Diversi conservatori hanno sollecitato l’introduzione di criteri di spesa meno generosi e hanno contestato un’ulteriore, drastica devolution.

Anche Alex Salmond, leader dello Scottish National Party, sarà messo alla gogna per il modo in cui ha condotto la campagna per il Sì. Durante i primi mesi, quando era guidato dallo Scottish National Party di Salmond, il fronte del Sì mancava di energia e strategia. Solo quando i diversi gruppi della sinistra si sono messi insieme, si è riusciti a raccogliere quello slancio che si è poi rivelato una forza formidabile negli ultimi mesi della campagna. Ma anche allora, errori precedenti, ad esempio la mancanza di una presa di posizione netta su questioni vitali come la valuta, hanno turbato la campagna. Personalità del fronte del Sì non appartenenti all’SNP si stanno già organizzando per denunciare pubblicamente e rumorosamente i leader dell’SNP e nello specifico Salmond. Nicola Sturgeon, un deputato dell’SNP, condivide con loro alcune lamentele. Il first minister scozzese controbatterà che la campagna ha strappato grandi concessioni da parte di Londra. Eppure, nell’atmosfera febbrile ed emotivamente a pezzi del fronte del Sì, sono possibili sia una sfida per la leadership che l’emergere di un partito nazionalista rivale.

Quale sarà la prossima mossa dei nazionalisti? Forse daranno prova di pazienza e pragmatismo, sostenendo il trasferimento di ulteriori poteri alla Scozia e restando alla finestra, in attesa di tempi migliori. Un nuovo governo conservatore uscito dalle elezioni generali del 2015, seguito da un referendum sull’appartenenza britannica all’Ue, potrebbe dare loro un’altra chance di fare pressione per la secessione. O forse si mostreranno aggressivi, argomentando con veemenza (come hanno fatto negli ultimi giorni della campagna) che gli scozzesi favorevoli all’indipendenza siano stati dissuasi da una machiavellica campagna di terrore. Se così fosse, presto arriveranno pressioni per nuovo referendum.

Allo stesso tempo i partiti unionisti tenteranno di portare a termine la devoluzione senza scontentare i parlamentari inglesi, che dovranno ratificare questo nuovo trasferimento di poteri. David Cameron l’ha confermato questa mattina parlando davanti a Downing Street dopo la diffusione dei risultati del referendum. Sarà Lord Smith of Kelvin, un nobile scozzese, a coordinare il processo, ha annunciato Cameron, aggiungendo che ci sarà un accordo sui nuovi poteri a novembre, seguito da una proposta legislativa a gennaio (allineandosi così alla tempistica proposta da Brown).

In questo modo la Scozia andrà verosimilmente nella direzione di un’autonomia simile a quella di cui dispone uno Stato americano. In un sistema politico unitario come quello britannico questo causerà enormi problemi costituzionali da risolvere – quasi certamente tra accesi scontri.

La prima obiezione rivolta a un’ulteriore concessione di poteri alla Scozia è vecchia, ma gode oggi nuova linfa. Perché, chiedono i parlamentari inglesi, i parlamentari scozzesi hanno potere di voto su interi ambiti legislativi (come l’istruzione, la salute e simili) che riguardano unicamente gli inglesi o, a volte, inglesi, gallesi e nordirlandesi? La “West Lothian question”, com’è stata battezzata molto tempo fa, irrita da sempre i parlamentari conservatori. Nelle dichiarazioni rilasciate stamattina, Cameron ha detto di volerla vedere risolta. Alcuni nel suo partito spingono per un parlamento fatto solo di inglesi o votazioni riservate agli inglesi all’interno della House of Commons; entrambe le soluzioni avvantaggerebbero i conservatori, visto che i Tories sono molto più potenti in Inghilterra che in Scozia.

E sarebbero tutt’altro che facili da realizzare. L’Inghilterra ha una posizione decisamente troppo dominante nel Regno Unito per poter avere una propria assemblea legislativa: il first minister del parlamento inglese sarebbe potente come il primo ministro britannico, sotto certi aspetti anche di più. Inoltre, il modello di Westminster afferma l’uguaglianza di status per i membri del parlamento. Tuttavia, Cameron e gli altri leader dei principali partiti dovranno probabilmente istituire una dimensione inglese all’interno dell’assemblea legislativa. Un comitato di gabinetto guidato da William Hague, che da leader conservatore nel 2001 aveva già impegnato il suo partito a far sì che fossero introdotte votazioni riservate agli inglesi, considererà la questione nel corso dei prossimi mesi. L’opzione più fattibile, suggerita lo scorso anno da una commissione, prevede di inviare ai comitati inglesi alcuni atti legislativi da emendare prima del voto finale da parte di tutta la Camera.

La seconda risposta al crescente squilibrio costituzionale del Regno Unito si potrebbe tradurre in richieste – che già stanno arrivando – per una più grande devolution all’interno dell’Inghilterra. Se la Scozia, con i suoi 5 milioni di residenti, controlla l’istruzione, il welfare, le aliquote fiscali, perché regioni e agglomerati con una popolazione simile devono essere guidati da Londra? La Electoral Reform Society e altri hanno chiesto la convocazione di una convenzione costituzionale per discuterne. Questa iniziativa ha il supporto politico di importanti politici locali (a Manchester, per esempio) e di Nick Clegg, il vice primo ministro, che ha promesso che farà da sentinella e si batterà per un governo locale più forte. Una raffica di rapporti, recentemente stilati da numerosi think-thank, ha fornito dei modelli di decentramento.

Così il Regno Unito resterà unito. Ma sarà più incoerente e costituzionalmente caotico rispetto al passato. «No grazie non vuol dire nessun cambiamento»: così gli attivisti della campagna Better Toghether (Meglio Insieme) rassicuravano gli scozzesi nelle ultime settimane della campagna. Quanto avevano ragione.

(Traduzione di Luna De Bartolo)

VIA/The Economist

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