L'ICONOCLASTA

Matteo Renzi, l’ex asso pigliatutto ridotto a socio di minoranza

Quinto appuntamento con Lo Specchio, la mia rubrica su La Stampa dove ogni settimana propongo un ritratto di una delle principali figure della politica italiana. Oggi è il turno di Matteo renzi. Disponibile anche su lastampa.it.

1 marzo 2018 – La prima volta che incontrai Matteo Renzi fu nel giugno del 2013 a Vienna, in occasione di una conferenza del Financial Times sul mercato del lusso. Il giovane sindaco di Firenze mi fu presentato dal mio amico Lionel Barber, direttore del quotidiano finanziario britannico. Salimmo tutti insieme nella stessa macchina, e Lionel mi chiese: «You know Matteo Renzi, Alan? The next Prime Minister of Italy! (Conosci Matteo Renzi, Alan? È il prossimo primo ministro dell’Italia!)». Renzi reagì a questa battuta facendo mostra di umiltà, con un sorrisetto imbarazzato da bravo ragazzo con il viso pulito, e la conversazione si spostò presto sul tema della sua ammirazione nei confronti di Barack Obama, Bill Clinton e Tony Blair, e di quanto lui credesse nella politica della Terza Via.

Qualche mese dopo, curiosamente il giorno della decadenza di Berlusconi al Senato, andai a trovarlo a Firenze, a Palazzo Vecchio. Dopo aver attraversato il meraviglioso Salone dei Cinquecento arrivai nell’ufficio del sindaco, al piano nobile. Quel giorno d’autunno del 2013, Renzi fu davvero brillante. Durante l’intervista sfoggiò efficaci abilità oratorie, mi sembrò una boccata d’aria fresca nella politica italiana. Parlò dell’urgenza di rottamare la sinistra di Massimo D’Alema “che ha saputo solo perdere”, ed espose la sua visione per una nuova Italia: un paese modernizzato e pronto per le sfide digitali del 21esimo secolo. Un flusso di belle parole. Il giovane Renzi, a poche settimane dalla sua vittoria alle primarie del Pd, si presentava come un ragazzo di grande intelligenza e lucidità. Sembrava capire bene le problematiche del mercato del lavoro, della pubblica amministrazione, del sistema fiscale, del debito. Riguardo a ogni tema aveva una strategia pragmatica e ragionevole. Era, insomma, piuttosto convincente.

Un mese più tardi, all’inizio del 2014, il neosegretario del Pd si mise insieme a Berlusconi stringendo il famigerato Patto del Nazareno. E a febbraio, dopo aver digitato il cinguettio più iconico della politica italiana, tolse per sempre la serenità al povero Enrico Letta prendendo il suo posto. Il mio amico Lionel aveva ragione, e il sindaco di Firenze diventò il più giovane presidente del Consiglio della storia italiana.

Appena arrivato, Renzi cominciò a muoversi con grande energia ma poca astuzia. Ricordate le slide a colori? I power point? L’annuncio di una riforma ogni mese, a marzo, ad aprile, a maggio, a giugno? E poi la nuova legge elettorale? Ecco fatto! Le idee non erano sbagliate, e l’elenco delle riforme era stato preparato correttamente. Ma i modi e toni del neopremier non sono stati d’aiuto, e nel tempo c’è stato uno slittamento nella percezione di Renzi da parte dell’opinione pubblica. Prima solo all’interno del Pd, poi, piano piano, in tutto il Paese: Renzi non era più il giovane rottamatore, carismatico ed empatico, ma un tipo troppo arrogante e, peggio, antipatico. In politica, essere antipatico vuole dire avere una carriera poco longeva.

Più a lungo governava, più diventava impopolare. E invece di continuare sul sentiero delle riforme, si è perso, si è distratto, dedicando troppa attenzione ai movimenti della palude romana e agli accordi sottobanco con Verdini o Alfano. Ha messo troppa carne al fuoco con il referendum del 4 dicembre e poi si è suicidato, promettendo di dimettersi nel caso in cui il sì avesse perso alle urne.

La sconfitta al referendum è stata pesante, e dopo le sue dimissioni da Palazzo Chigi Renzi non si è mai ripreso. Certamente hanno contribuito la storia delle banche e le vicissitudini della Boschi. Poi è stato ferito gravemente durante la guerra civile all’interno del Pd, fino alla mazzata della scissione.

La parabola discendente di Renzi ha subìto un’accelerazione nel 2017, nonostante un governo quasi fotocopia del suo continuasse a governare. La verità è che Paolo Gentiloni è più apprezzato di Renzi dalla grande maggioranza degli italiani. Il brand Renzi ha perso parecchio valore sul mercato nazionale della politica.

La tragedia, a mio avviso, è che Renzi è uno dei pochi politici italiani a sapere davvero cosa bisogna fare per modernizzare l’economia. La capisce, e ha scelto una squadra di tecnici seri e pragmatici, uomini come ad esempio Pier Carlo Padoan, Tommaso Nannicini e Filippo Taddei. Persone che fanno parte di quella che probabilmente è la miglior squadra di consiglieri economici disponibile sulla scena politica odierna, perlomeno se paragonata con quelle degli altri partiti. E va riconosciuto che, nonostante alcune delle proposte economiche lanciate da Renzi durante questa campagna elettorale siano irresponsabili, come la promessa di finanziare il taglio delle imposte ricorrendo al deficit, il suo programma è forse quello più serio, se non altro perché promette meno degli altri. Non ci sono progetti stravaganti, come la flat tax o l’abolizione della riforma Fornero. C’è un certo pragmatismo.

A creare problemi non è la mancanza di capacità del Pd di dare un contribuito positivo alla gestione dell’economia. Il problema si chiama Renzi. Matteo Renzi si è rivelato il peggiore nemico di sé stesso.

È impressionante riflettere su come il fenomeno Renzi sia mutato rispetto a quando lo conobbi, quasi cinque anni fa. Da stelle nascente a leader sotto assedio impegnato nella battaglia della vita, la lotta per la sua sopravvivenza politica. L’uomo che è stato la promessa della nazione, oggi sta probabilmente pregando di non vedere il suo Pd scendere sotto la soglia del 20 per cento.

Per un uomo che ama comandare, l’aspetto forse più doloroso è la consapevolezza che dopo il voto, se vorrà conservare una mano nel prossimo governo, sarà probabilmente necessario convivere in una coalizione in cui il Pd svolgerà il ruolo di socio di minoranza.

E questo sì, dovrebbe far male.

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