L'ICONOCLASTA

Tra Messico e Stati Uniti: lo sceriffo Martinez e i migranti che rischiano la vita per passare il confine

Pubblichiamo un brano di “Questa non è l’America” (Newton Compton, 2017) tratto dal capitolo 6 (Una nazione di immigrati).

15 novembre 2017 – (…) Lo sceriffo Benny Martinez ha un problema. Ha troppi corpi di messicani da recuperare. Falfurrias è una cittadina texana con meno di 5000 anime, costituita soprattutto da campi, boscaglia e impianti abbandonati per l’estrazione del petrolio e del gas. Ospita il più grande posto di blocco del Paese gestito dalla Guardia di Con ne, la famosa stazione di Falfurrias sulla Highway 281, un centinaio di chilometri a nord del Rio Grande, più o meno un’ora a sud di Corpus Christi. La sfida che lo sceriffo Urbino “Benny” Martinez si trova ad affrontare non è tanto relativa alla cattura e alla deportazione di migranti che attraversano il checkpoint, celati nei condotti dell’aria, nei vani motore o in altri nascondigli all’interno dei camion. No, quello è un compito della Guardia di Confine, che fa un ottimo lavoro qui.

Il problema dello sceriffo Martinez della contea di Brooks è di un diverso ordine di grandezza, perché il suo ruolo, nella maggior parte dei casi, include anche il recupero degli eventuali cadaveri. In un certo senso è anche uno che lavora alle pompe funebri oltre che un poliziotto. Lo sceriffo Martinez affronta i veri e terribili danni collaterali dell’immigrazione illegale, ogni giorno, e lo fa di lavoro, o quasi.

Allampanato, sulla sessantina, con una maglietta color cachi militare, blue jeans e stivali da cowboy, lo sceriffo è un uomo gentile e ospitale: il volto dai lineamenti marcati, i capelli grigi incolti e ventinove anni di esperienza sulle spalle come agente della polizia di Stato texana. Nel novembre del 2016 è stato eletto sceriffo della contea, senza che i repubblicani gli opponessero un candidato contro cui concorrere. In precedenza era stato a lungo vice sceriffo di Falfurrias. Benny Martinez si occupa di sicurezza pubblica in questa contea da molti anni e ne ha viste davvero di tutti i colori, non ultime le fosse comuni di migranti scoperte qualche anno fa in mezzo ai cespugli di salsola nel deserto. Amministra un budget di meno di 1 milione di dollari l’anno, che deve bastare per gestire sia il corpo di polizia sia la prigione della contea. Martinez si lamenta perché non ha fondi sufficienti per tutto, e aspetta ancora i rimborsi federali per le spese fuori budget che ha dovuto sostenere per quello che definisce – ed è a dir poco un eufemismo – l’emergenza del «recupero e lo smaltimento dei deceduti».

«Dal nostro posto di blocco transitano dalle 10 alle 11.000 vetture al giorno, probabilmente è uno dei più trafficati del corridoio sudoccidentale, e questo significa immigrazione, traffico di narcotici e un sacco di cadaveri lasciati marcire», dice sospirando.

Al checkpoint di Falfurrias sull’Highway 281, mentre alcune squadre di agenti in uniforme verde, con lettori automatici di targhe in dotazione, verificano documenti e permessi di soggiorno a conducenti e passeggeri, altre fanno su e giù lungo la coda delle auto con i cani antidroga. In alto, sopra il posto di blocco, un gigantesco aerostato sorveglia la vegetazione e i campi circostanti, alla ricerca di migranti o trafficanti fatti scendere un poco prima per tentare la lunga traversata a piedi ed evadere i controlli di polizia.

«Li chiamiamo gli scaricati», dice lo sceriffo Martinez, parlando dei gruppi di migranti che i trafficanti lasciano nell’area immediatamente a sud del posto di frontiera di Falfurrias. Vengono scaricati dalle auto o dai camion, spiega Martinez, in modo che possano poi continuare a piedi su quel terreno ostile e infido, attraversando la contea, per essere poi raccolti sull’autostrada a nord del checkpoint. Così possono continuare il loro viaggio negli Stati Uniti. E il problema, dice lo sceriffo, non è che ci sono troppi scaricati che riescono a compiere tutto il tragitto e sfuggire al checkpoint. Il problema è che troppi di loro non ce la fanno a superare la camminata.

«Spesso arrivano veicoli che trasportano 10, 15 passeggeri. Clandestini privi di documenti. Vengono fatti scendere e si avventurano in mezzo ai cespugli, nel deserto», racconta Martinez. «Procedono a fatica su questo terreno difficile e pieno di insidie, spesso si perdono, restano feriti. Se si sentono male o non riescono a tenere il passo, gli altri li lasciano indietro. Perciò noi dobbiamo andare a cercare i cadaveri abbandonati», dice Martinez, e la sua voce si tinge di tristezza quando ricorda i messicani anziani che ha ritrovato morti, i corpi di madri e bambini che cercavano di compiere quel viaggio della speranza.

«E non ho ancora finito», continua. «Le giovani donne che attraversano il con ne di solito subiscono violenze sessuali durante il viaggio. Un altro problema che si aggiunge a quelli già esistenti che dobbiamo affrontare. Senza contare i ricercati in altri Stati per crimini gravissimi come l’omicidio, che dobbiamo trattenere no a che non viene autorizzata l’estradizione. Sì, insomma, ecco cosa succede nella contea di Brooks».

Martinez va avanti con il suo racconto. Spiega che mentre il viaggio in sé e per sé è lungo e difficile, i contrabbandieri tendono a minimizzare i rischi quando si disfano del loro carico umano.

«Gli dicono che tutto quello che devono fare è camminare per due o tre giorni. Ma molto dipende dalle condizioni fisiche e comunque ci vuole un po’ di più, qui il terreno è molto sabbioso. Molto, molto sabbioso. Qui ci sono dune di sabbia anche molto grandi, siamo nella costa sud», annota lo sceriffo. «E poi, è difficile da capire per chi non ci è mai stato, ma anche se è una zona arida la vegetazione è fitta. Il terreno è pieno di arbusti molto folti, di cespugli ingombranti, ed è molto difficile passarci in mezzo. Perciò i migranti cercano di abbassarsi e di strisciarci sotto. Un modo lo trovano. Ma spesso non hanno con sé abbastanza cibo, acqua a sufficienza, e magari neppure l’attrezzatura minima necessaria per sopravvivere là fuori, in balia del vento e della sabbia, e magari devono camminare cinque o sei giorni per una cinquantina di chilometri su un terreno davvero insidioso».

E in queste condizioni estreme, su questo territorio estremo, lo sceriffo Martinez ha gestito la morte di centinaia di migranti, ed è stato costretto a richiedere risorse extra per affrontare il lato più oscuro del problema americano dell’immigrazione. Anche se l’immigrazione è materia federale, e il Border Patrol fa parte del Dipartimento della Sicurezza Interna, spetta all’ufficio locale dello sceriffo recuperare i morti e disporre dei resti. Forse è per questo che lo sceriffo Martinez sembra tanto sopraffatto dalle difficoltà.

In qualità di sceriffo eletto e di democratico, Benny Martinez vibra di indignazione quando sente menzionare Donald Trump e la sua idea di costruire un muro.

«Non sono d’accordo con il muro», dice Martinez, pensieroso. «Credo davvero che ciò di cui abbiamo bisogno siano più risorse sul territorio, più uomini sul terreno e più tecnologia. Un muro non farebbe che dare maggiori finanziamenti al settore privato, invece di cercare di risolvere davvero il problema. Dobbiamo distinguere tra l’elemento criminale che varca il confine e la mamma con il figlio. Per me una mamma con un bambino che attraversa il confine non rappresenta una minaccia per gli Stati Uniti. Io andrei piuttosto a cercare l’elemento criminale, quelli che lasciano la gente a morire là fuori, ben sapendo che molti non ce la faranno». (…)

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