L'ICONOCLASTA

La Francia ha dichiarato guerra all’austerity della Maestrina Merkel? Perché non è così facile per l’Italia seguirla nella Battaglia di Eurolandia? Una palla al piede: il peso del debito italiano.

Ora che si parla dell’ammutinamento della Francia, ci si chiede perché anche l’Italia non possa rigettare la famigerata regola del 3 per cento. La differenza secondo me la fa il debito: l’Italia non può portare il debito al 150 per cento del Pil senza essere esposta a un attacco frontale da parte degli speculatori nei mercati finanziari, quegli stessi che c’erano nel 2011.

Quindi l’abbattimento del debito – un tema che Renzi non ha ancora affrontato e che non figura nel suo elenco di riforme e iniziative – è a mio avviso l’unico modo per essere in grado di fare la voce grossa con la Merkel e bocciare l’austerity in via definitiva.

Non ha senso il limite del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil in un momento di severa recessione. Non ha senso. Ma l’Italia non può permettersi di sforare finché non avrà ridotto quel debito di 2.100 miliardi, che a fine anno rappresenterà il 136 per cento del Pil.

La Francia ha un debito di portata analoga (proprio pochi giorni fa ha superato per la prima volta la soglia dei 2.000 miliardi) ma, in rapporto al Pil, questo rimane sotto il 100 per cento, precisamente al 95,1 per cento.

In quest’ottica, io credo che si possa ridurre il debito attraverso un metodo che non svenda il patrimonio pubblico e ci faccia rapidamente guadagnare il rispetto di tutti, anche della Maestrina Merkel.

L’Italia non può porsi a fianco della Francia nella ribellione contro la Merkel finché non avrà ridotto il suo debito.

Se non ti interessa la spiegazione tecnica, puoi smettere di leggere qui. Se invece vuoi capire cosa propongo per ridurre il debito, vai avanti e leggi questo brano tratto dal mio libro Ammazziamo il Gattopardo.

Se vogliamo ragionare su come rimettere il Paese sul binario della crescita e dell’occupazione dobbiamo cominciare con l’abbattimento del debito, non per rimandare le iniziative per il lavoro o altre riforme ma per agire contemporaneamente su entrambi i piani.

Perché insisto così tanto sulla riduzione del debito? La risposta è semplice: una volta che si inizia a ridurre il debito, anche di poco, si manda un messaggio potente ai mercati finanziari, agli speculatori, ai nostri critici e pure ad Angela Merkel, un messaggio che si potrebbe riassumere così: «Zitti tutti. Non ci provate con noi perché stiamo già mostrando quanto siamo virtuosi, seri e responsabili. Ora facciamo una rinegoziazione dei vincoli europei e una modernizzazione delle regole di Maastricht in modo razionale e da una posizione di forza e credibilità come Paese. E porremo fine al culto dell’austerity».

La riduzione seria del debito ci proteggerà dagli speculatori nei mercati finanziari e ci metterà in una botte di ferro, dandoci una credibilità forte e un vero potere contrattuale in Europa, quello che a questo Paese manca da decenni.

Come fare? Vediamo.
Sfruttare il patrimonio pubblico, senza svenderlo, per abbattere il debito in modo incisivo, riconquistando la credibilità a livello europeo e nei mercati e riducendo gli interessi che paghiamo. Questo ci darà respiro e ci permetterà di investire, di tagliare le tasse e di pensare in grande a un piano di rilancio complessivo del Paese.

È da anni che nei corridoi del potere e in simposi tecnici ed economici, convegni e centri studi gli esperti discutono dell’uso del patrimonio pubblico per abbattere il debito. Ho parlato con quasi tutti gli uomini e le donne intelligenti ed esperti in questa materia, ho letto tutte le analisi, da Paolo Savona ad Andrea Monorchio e Vittorio Grilli, Franco Bassanini, Francesco Giavazzi e tanti altri, per capire cosa suggeriscono. Ho chiesto il parere di Berlusconi, Prodi, D’Alema, Amato, Monti e Passera. E poi mi sono fatto la mia idea su come fare. E la mia idea non assomiglia al piccolo piano annunciato dal governo Letta-Alfano, in cui si realizza qualche vera privatizzazione e qualche giochino contabile. No, così si rischia di svendere ma si rischia anche di fare una mezza misura, di sprecare un’opportunità molto più grande, e anche più giusta nei confronti dei cittadini. Si può abbattere il debito anno per anno, e questo non richiede di mettere subito sul mercato i beni dello Stato. Vediamo come.

Nel mio piano mettiamo le mani
, con cautela, su una parte dei 1000 miliardi di beni pubblici, dalle quote delle società come Finmeccanica ed Eni, Enel ma anche le Poste e Ferrovie e i beni immobiliari, dalle spiagge alle caserme dismesse, e facciamo affluire circa 400 miliardi in un nuovo ente o contenitore holding che emette obbligazioni, con un ritmo calibrato di circa 50 miliardi all’anno per un periodo di otto anni. Mentre via via il patrimonio pubblico si trasferisce al nuovo ente, quell’ente usa il patrimonio pubblico come collaterale ed emette delle obbligazioni di lunga durata (almeno dieci anni) ai privati (per metà in modo obbligatorio per le banche, fondazioni e assicurazioni capaci di investire, per un quarto ai singoli in Italia che potrebbero sottoscriverle come fanno con i Btp o i Bot, per un quarto agli investitori internazionali e fondi sovrani di Paesi ricchi con un’operazione ambiziosa ma seria di marketing). I ricavi delle obbligazioni sottoscritte dai privati vengono versati al conto capitale dello Stato, riducendo il debito di 50 miliardi all’anno per otto anni, una riduzione che ci porta dal 133 per cento del rapporto debito/Pil sotto il 100 per cento. Il risparmio degli interessi pagati sul debito (assumendo un costo medio di 4 % di interessi) sono un totale di 72 miliardi alla fine di otto anni. Per esempio, si risparmia 2 miliardi nel primo anno, 4 miliardi nel secondo, 6 miliardi totali nel terzo e così via.

Quindi ogni anno ci saranno più risorse disponibili di spesa corrente (i risparmi dalla riduzione degli interessi sul debito), ora liberi e liberati per investimenti nell’occupazione. Non si svende il patrimonio pubblico in un mercato troppo debole per assorbirlo perché il nuovo ente ha fino a dieci an- ni dal momento in cui sono sottoscritte le obbligazioni per vendere quei cespiti, e quindi ha dieci anni dal primo anno, dieci dal secondo anno e così via. C’è respiro e c’è il tempo tecnico necessario per vendere il patrimonio alle condizioni più favorevoli.

E chi possiede le obbligazioni di questo nuovo ente — chiamiamolo FVPP, il Fondo per la Valorizzazione del Patrimonio Pubblico — potrà contare su una cedola bassa ma ben garantita da una fetta del patrimonio (ex) pubblico, quindi sicura. Ma ormai il patrimonio è nelle mani dei privati, che hanno versato denaro allo Stato, e non è più debito. E, per dare un ritorno buono su un investimento sicuro, diamo agli investitori non solo la cedola ma anche la possibilità di incassare un dividendo bonus alla fine di ogni anno, se i ricavi delle vendite dei beni del FVPP in quell’anno superassero il valore di base al quale sono stati trasferiti dallo Stato al nuovo ente (e questo è probabile, perché le valutazioni per arrivare al totale odierno di 1000 miliardi del patrimonio pubblico sono state fatte a prezzi stracciati).

Troppo tecnico tutto questo? Riassumo nel modo più semplice: riduciamo il debito, risparmiamo soldi sugli interessi del nostro debito, costringiamo le banche a sottoscrivere le nuove obbligazioni per la metà (perché è giusto!) e piazziamo il resto a investitori italiani e internazionali. Così riconquistiamo il nostro posto sul palco dell’Europa, e poi facciamo sì la voce grossa con la Merkel, ma solo quando siamo credibili.

(pubblicato sul Corriere della Sera di mercoledì 12 febbraio, tratto dal libro “Ammazziamo il Gattopardo)

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