L'ICONOCLASTA

La corte d’appello contro Trump. Bocciato il ricorso del Dipartimento di Giustizia contro la sospensione del decreto sull’immigrazione

10 febbraio 2017 – Il bando firmato da Trump è «incostituzionale». La corte d’appello del nono distretto ha bocciato il ricorso presentato dal Dipartimento di Giustizia contro la decisione del giudice di Seattle James Robart, che venerdì scorso aveva sospeso a livello nazionale il decreto sull’immigrazione varato il 27 gennaio da Donald Trump. I tre giudici, due di nomina democratica e uno di nominarepubblicana, hanno deciso all’unanimità di mantenere la sospensione. William Canby, nominato da Jimmy Carter, Michelle Friedland, scelta da Obama e Richard Clifton, nominato da George W. Bush, non si sono divisi per schieramenti politici.

Il presidente aveva disposto il divieto d’ingresso negli USA per 90 giorni ai cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana – Iran, Iraq, Yemen, Libia, Somalia, Sudan e Siria -, compresi quelli in possesso di regolare permesso di soggiorno o addirittura di doppia cittadinanza. Allo stesso tempo, il decreto sospendeva per quattro mesi l’arrivo in America di rifugiati provenienti da qualsiasi paese ad eccezione dei profughi siriani, per i quali il divieto era a tempo indeterminato.

La corte d’appello del nono distretto conferma così la decisione di Seattle, che ha sospeso il divieto a tempo indeterminato. Nella sua decisione il giudice Robart – nominato dall’allora presidente George W. Bush, repubblicano – aveva sottolineato come l’amministrazione Trump abbia giustificato il decreto con richiami agli attentati dell’11 settembre 2001, attentati che non hanno visto coinvolti cittadini provenienti dai sette paesi interessati dal bando. Gli attentatori dell’11 settembre provenivano dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi Uniti, dall’Egitto e dal Libano, paesi che, tuttavia, non rientrano nel bando di Trump. Mai, sul suolo americano, è stato realizzato un attentato da parte di persone con passaporto iraniano, iracheno, siriano, libico, yemenita, somalo o sudanese.

All’amministrazione Trump resta ora solo il ricorso alla corte Suprema, che in attesa della conferma da parte del Senato del nominato dal nuovo presidente in sostituzione del defunto Antonin Scalia, il giudice Neil Gorsuch – che pochi giorni fa ha bollato come «deprimenti» le parole di Trump sui giudici che hanno bloccato il bando -, resta in una situazione di stallo tra giudici di nomina democratica e repubblicana: quattro contro quattro.

Il presidente Trump, che già da giorni sta sfogando la sua frustrazione su twitter, lasciandosi andare ad attacchi tanto virulenti quanto inusuali, ha subito commentato la bocciatura: «Ci vediamo alla Corte (suprema, ndr), la sicurezza del nostro Paese è a rischio». poi ha accusato i tre giudici di aver preso «una decisione politica». Giorni fa aveva definito James Robart, il giudice di Seattle che per primo si è pronunciato contro il suo decreto, «il cosiddetto giudice, con idee ridicole». Mai un presidente si era rivolto in modo così violento nei confronti di un rappresentante dell’apparato giudiziario, pilastro fondamentale della separazione dei poteri negli Stati Uniti. «Non riesco a credere che un giudice possa mettere il nostro paese in tale pericolo. Se succede qualcosa prendetevela con lui e con il sistema giudiziario. Gente sta arrivando in massa. Male!», aveva twittato.

La decisione del giudice Robart, che era stato chiamato a pronunciarsi in merito dagli stati di Washington e Minnesota, non sarà certamente l’ultima. Sembra piuttosto il preludio di una battaglia giudiziaria sul tema dell’immigrazione che potrebbe durare per mesi.

Allo stesso tempo, Microsoft, Apple, Facebook, Google, Netflix, Twitter, Uber e altre 90 aziende del settore tech stanno preparando un’azione legale coordinata per opporsi al controverso decreto.

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