Caro Luciano, sono d’accordo con Giavazzi che ha stroncato le modalità di questa (finta) privatizzazione delle Poste nel suo articolo nel Corriere della Sera di stamane.
Giavazzi scrive: «La “privatizzazione” delle Poste è l’esempio di ciò che accade quando un governo debole e pressato dai conti pubblici, perché non è capace di tagliare le spese, si trova a dover cedere a interessi particolari anziché operare nell’interesse dei cittadini e dello Stato».
Le privatizzazioni, a mio avviso, devono essere vere e non parziali, e non fatte frettolosamente. E non solo: vanno usate per abbassare il debito e non per spese correnti.
Nel mio nuovo libro, che esce con Rizzoli il 12 febbraio, parlo anche di questo, più in dettaglio.
Saluti,
Alan
Ma negli Usa la US mail è pubblica o privata?
Ciò non vuol dire che vi possano essere altri operatori che offrono lo stesso servizio. Ma perché in Italia si confonde le privatizzazioni con le liberalizzazioni? Le prime possono condurre a monopoli (esempio: autostrade, Alitalia, ecc.), le seconde – in concorrenza anche con il pubblico – possono andare a vantaggio dei consumatori.
Dopo aver letto l’editoriale di Giavazzi mi domando:
che senso ha che il settore pubblico investa mediante Poste Italiane nel settore finanziario (banca, assicurazione) o in altri settori (telefonia ecc.), per poi cedere le attività ai privati?
O il settore privato aveva bisogno di concorrenza e allora Poste può essere – a suo modo – un concorrente per un settore ingessato e quindi venderla (per ora al 40%, ma a Giavazzi piacerebbe arrivare al 21% come in Germania) non è vantaggioso per i clienti; oppure mi si spiega la logica di investire soldi pubblici in imprese che poi vengono privatizzate?
Le casse pubbliche non mi pare ne abbiano tratto giovamento, in passato. Resta da vedere se tutte queste operazioni servano per pagare consulenze (anche americane, caro Alan) o per permettere a qualcuno nel posto giusto di portare a casa la sua fetta di torta.