L'ICONOCLASTA

Brexit, il Parlamento UK dice no: bocciato l’accordo raggiunto da Theresa May con le istituzioni europee

15 gennaio 2019 – Con 432 no e 202 sì il Parlamento britannico respinge l’intesa raggiunta dalla premier Theresa May con Bruxelles sull’uscita del Regno Unito dall’Ue. May ha annunciato che accetterà la discussione di una mozione di sfiducia sul suo governo già mercoledì.

La stampa locale, all’unanimità, aveva ampiamente previsto che l’accordo sarebbe stato rigettato: un centinaio circa di Tories, compagni di partito della premier, avevano dichiarato alla viglia il loro voto negativo; buona parte di loro considerano l’accordo troppo morbido – una Brexit solo di nome e non di fatto -, mentre i conservatori che all’epoca del referendum si erano schierati per il Remain, preferirebbero al contrario un’uscita più sfumata. A questi si aggiungevano i dieci alleati di governo della destra nazionalista nordirlandese, anch’essi contrari al testo negoziato con Bruxelles, e tutti i partiti dell’opposizione, dai laburisti (il cui leader, Jeremy Corbyn, chiedeva nuove elezioni in caso di bocciatura) ai liberali, ai verdi, agli scozzesi del SNP. Peggio di così non poteva andare: una débâcle clamorosa.

Lunedì, May aveva fatto un’ultimo tentativo di convincere i membri del Parlamento, chiedendo loro di rileggere l’accordo, di dargli un’altra chance. «Avendo osservato gli eventi a Westminster negli ultimi sette giorni – aveva affermato a Westminster – ritengo che la prospettiva più probabile sia una paralisi in Parlamento che rischia di portare a una mancata Brexit. La fiducia della gente nella democrazia e nei politici subirebbe danni catastrofici. Abbiamo tutti il dovere di onorare il risultato del referendum e far diventare Brexit realtà». L’accordo raggiunto è un compromesso, aveva continuato May, confidando di non considerarlo soddisfacente. Tuttavia, aveva aggiunto, quell’accordo «è l’unico mezzo possibile per garantire l’uscita dall’Unione Europea».

Il problema principale, quello che più preoccupa i contrari all’accordo con le istituzione europee, riguarda la cosiddetta clausola di back stop che scatterebbe dopo il periodo transitorio e fino al raggiungimento di un accordo sul confine tra Irlanda e Irlanda del Nord, su cui tanto sangue è stato versato meno di mezzo secolo fa. La soluzione di compromesso prevede, allo scopo di mantenere un confine senza barriere, la permanenza temporanea dell’intero Regno in un’unione doganale creata ad hoc, la Wide Custom Union, in attesa di un successivo accordo complessivo sulle relazioni future post Brexit fra Londra e Bruxelles. Tuttavia, il timore è che i colloqui su questo spinoso punto vadano troppo per le lunghe e il Paese resti impaludato. E a poco o nulla è servito aver reso pubblico lo scambio epistolare avuto da May con il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, e quello del Consiglio dell’Unione, Donald Tusk, dove si assicura che la clausola rimarrà in vigore solo per il tempo strettamente necessario.

«Se stasera andasse male, ci potrebbero essere ancora colloqui – aveva affermato a Strasburgo il ministro degli esteri tedesco, Heiko Maas – Non credo tuttavia che si possano mettere soluzioni aggiuntive sul tavolo che nulla hanno a che fare con quello che è stato negoziato».

La May, fino all’ultimo, si è mostrata fiduciosa, il Regno Unito, aveva assicurato, lascerà l’Unione europea «il 29 marzo. Sono stata chiara circa il fatto che non dovremmo né estendere l’articolo 50, né organizzare un nuovo referendum. Il popolo britannico ha dato un mandato per lasciare [l’Unione] ed è nostro dovere farlo, ma voglio che sia fatto dolcemente e in modo ordinato, così da proteggere i posti di lavoro e garantire sicurezza». Ed è proprio questo il punto su cui la premier si era più spesa negli ultimi mesi: bisogna a tutti i costi evitare un no deal, ovvero un’uscita senza accordo, disordinata, e potenzialmente molto dannosa per l’economia d’Oltremanica. Eventualità che, tuttavia, sembra proprio concretizzarsi in queste ore. E, giunti a questo punto, anche l’ipotesi di un secondo referendum non è più da escludere categoricamente.

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