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Il premio Nobel per l’economia Michael Spence sull’economia post-Covid: “Un crollo vertiginoso e poi una ripresa medio-lenta”

Il premio Nobel per l’economia Michael Spence, in questa intervista da me realizzata per La Stampa, constata come stiamo assistendo a “un crollo vertiginoso” delle economie degli Stati Uniti e dell’Europa, e prevede per il prossimo futuro ”una ripresa medio lenta, con settori maggiormente colpiti, come i viaggi internazionali o i grandi eventi sportivi”. Secondo Spence, di capitale importanza si rivelano gli aiuti messi in campo dalla Federal Reserve e dalla Banca centrale europea, così come quelli forniti dal Tesoro negli Usa e dallo European Recovery Fund. Nonostante ciò, Spence si dice convinto che sia gli Usa sia l’Italia possono sperare di tornare ai livelli di Pil del 2019 già tra due o tre anni.

Professor Spence, lei ha detto che l’economia globale si trova ad affrontare un enorme shock negativo dopo il COVID; che ci troviamo di fronte a un percorso molto accidentato e ben poco piacevole, per via di questa crisi, che verrà seguito da una ripresa piuttosto lenta e dolorosa. Può illustrarmi la sua visione di questo percorso di ripresa, in termini economici?

Dipende un po’ dalla posizione di partenza, Alan. Nei Paesi sviluppati – in Europa, Nord America, Nuova Zelanda – credo che ci troveremo di fronte a un crollo vertiginoso. Ma le cose cambieranno da Stato a Stato. Poi ci sarà un periodo difficile, nel momento in cui cercheremo di tenere sotto controllo il virus. Teniamo a mente che ci sono relativamente pochi esempi di Paesi che sono stati in grado di gestire il virus a uno stadio abbastanza precoce da bloccarlo o quasi, giusto? In buona parte del mondo il contagio si è diffuso in modo incontrollato e invisibile. Dopo questo periodo ci troveremo di fronte a una ripresa relativamente lenta, per quanto magari più veloce in alcuni settori, accompagnata, si spera, da progressi continui nel processo di eliminazione del virus. Naturalmente, un vaccino troncherebbe di netto la questione e garantirebbe una crescita molto più rapida e decisa.

Esaminiamo un po’ le varie regioni del globo. Per gli Stati Uniti parliamo di una contrazione del Pil dell’ordine del 9%, il 10% per il 2020? E sarà una curva a V o a U? E fino a quando? Il 2021? Dobbiamo aspettarci più di 40 milioni di disoccupati che poi verranno riassorbiti in fretta? Che cosa prospetta per gli Stati Uniti?

Prevedo un crollo piuttosto esteso. Il tasso di crescita e il Pil possono essere ingannevoli quando c’è una grossa fluttuazione in brevi periodi. Se prendiamo in esame un trimestre, il crollo sarà terribile, parliamo del 25% circa: sarà questo il tasso di disoccupazione se consideriamo anche chi ha perso il lavoro in via temporanea. E poi c’è la difficoltà che stiamo vivendo adesso, e da cui iniziamo appena a uscire. Credo che possiamo aspettarci quella che definisco una ripresa medio lenta, con settori maggiormente colpiti, come i viaggi internazionali o i grandi eventi sportivi. Sono loro il problema: il vero rischio è la risposta del pubblico. Anche in mancanza di restrizioni, molti saranno riluttanti a ripartire. Di certo, a meno che non arrivi il vaccino, la curva non sarà a V. La ripresa sarà lenta. Forse a forma di U. Mi aspetto una brusca caduta seguita da un periodo di stasi, poi una ripresa che sarà graduale.

Riassumendo, dovremo aspettare il 2022 prima di tornare ai livelli del 2019?

Esatto. La variabilità dipende dalla velocità della ripresa.

Quanto sono importanti le migliaia di miliardi di dollari di liquidità e di Quantitative easing messi in campo dalla Federal Reserve, e le altrettante migliaia di miliardi di dollari di stimolo fiscale provenienti dal Tesoro?

Sono una parte incredibilmente importante della risposta politica. La Fed, oltre ad accertarsi che I mercati continuino a funzionare e che non si crei una sorta di lock-up e uno scenario di crisi finanziaria, sta creando flessibilità fiscale. Molti governi, tra cui quello americano, usano questa flessibilità fiscale essenzialmente per assorbire lo shock che altrimenti ricadrebbe sull’economia reale. Ovvero, tutelare le famiglie e le imprese, e se, necessario, fare in modo di non ritrovarci con un problema finanziario, per esempio nel settore bancario. Un atteggiamento molto saggio. La speranza è che grazie a questa attenuazione dello shock i danni possano essere traslati, almeno in parte, al debito. La domanda è cosa è peggio per l’economia: un mucchio di famiglie che si ritrovano con Il bilancio dissestato, che sarebbe un gravo danno per l’economia, o un debito sovrano che cresce? La nostra risposta è che il debito sia l’opzione migliore, e credo che sia molto giusta.

Il rapporto tra debito pubblico e Pil negli Usa, pari al 96% circa prima del COVID, salterà più o meno al 110%, o il 120% nel giro di pochi mesi. È importante?

Certo. Credo che una delle conseguenze sarà che le grandi banche centrali, la Bce e la Fed, che saranno tornate a una politica economica accomodante estremamente aggressiva, la dovranno mantenere per un periodo considerevolmente lungo. Quindi da questo punto di vista torneremo indietro. E ovviamente ci saranno delle conseguenze. Per esempio, avremo delle distorsioni per quanto riguarda l’allocazione delle risorse. Ci saranno dei vincoli fiscali più stringenti di quanto si vorrebbe. L’Italia è un buon esempio, come sa bene. La situazione di partenza vedeva un rapporto debito-Pil pari al 130, 135%. Potremo arrivare al 160%, se non di più. Non è certo una posizione ideale, per quanto riguarda il funzionamento dell’economia e del ruolo che vi svolge il governo. Ma in crisi come questa, la qualità delle scelte politiche di solito spaziano tra “non proprio ottimali” a “pessime”. Per adesso sono rimasto colpito.

Lei è rimasto colpito dal modo in cui il governo italiano ha gestito la crisi o dalla risposta delle autorità europee? O da entrambe le cose?

In un primo momento l’impressione era che in Europa ciascuno sarebbe andato per la propria strada. Ma forse le cose stanno cambiando, come lei sa molto bene. Ritengo estremamente incoraggiante il comportamento della Bce, il solido impegno a prevenire la volatilità sui mercati in relazione ai debiti sovrani. Ed è ancora più importante l’iniziativa a cui sembrano intenzionati a dare avvio il presidente Macron e la cancelliera Merkel. Se riusciranno a far passare il European Recovery Fund da €750 miliardi progettato per sostenere i Paesi dell’UE e finanziato da debito europeo, sarà un grosso passo in avanti.

È d’accordo con Mario Draghi quando dice che nella nuova normalità un indebitamento più alto, che sia per l’Italia, per l’America o in media per l’Europa, farà parte del quadro generale e non sarà quindi un problema nei prossimi cinque o dieci anni, perché sarà uno scenario con cui ci troveremo a convivere tutti?

Sì, credo che abbia sostanzialmente ragione. Tutto dipende dalla tenuta dell’Europa e dalla risposta della Bce. Quello che Mario sta dicendo, e io ritengo che abbia ragione, è che se l’impegno della Bce è forte come ai tempi del suo famoso “whatever it takes”, in quel caso la gestione del debito italiano sarà gestibile; non ottimale, ma gestibile. Se invece la Bce dovesse far venire meno il suo sostegno, potremmo ritrovarci con dei rendimenti nominali dell’ordine del 6 o 7%, e questo non sarebbe sostenibile.

Se lei dovesse consigliare il governo italiano, o se lei stesso fosse il primo ministro, quale potrebbero essere le due, tre politiche economiche più importanti per aiutare l’Italia a crescere di nuovo, in prospettiva futura?

Più o meno quello che stanno già facendo. Le politiche del governo italiano sono piuttosto ragionevoli. Hanno mostrato prudenza nella gestione del virus, ma adesso permettono l’arrivo dei turisti e la circolazione dei cittadini tra le regioni. E lo capisco, perché un grosso settore dell’economia dipende dal turismo. Se fosse possibile procedere potendo contrae su un sistema di tracciamenti e test ben studiato e finanziato sarebbe tutto molto più sicuro.

Mi permetta di ampliare il raggio di indagine. La crisi del Covid rischia di creare più protezionismo? Abbiamo visto che Trump si oppone al sistema di commercio multilaterale e minaccia la Cina e l’Europa, imponendo tutta una serie di dazi e sanzioni. Rischiamo un trend di deglobalizzazione?

Sì, credo di sì. Abbiamo già superato una fase simile, che è stata innescata da una serie di fattori, come le tensioni commerciali tra USA e Cina. Il secondo fattore è l’evoluzione dell’economia globale, che ha comportato effetti notevoli sulle economie interne dei Paesi sviluppati. Dal punto di vista politico abbiamo assistito a una crescita del nazionalismo, con il rigetto del sistema di globalizzazione piena sotto cui operavamo. Il trend era già visibile. Credo che sia ragionevole supporre che il virus amplierà e rafforzerà questa tendenza, nel migliore dei casi; nel peggiore, lo esacerberà notevolmente.

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