L'ICONOCLASTA

La nuova normalità del debito pubblico

Siamo di fronte a un cambio di paradigma: tutto ciò che fino a ieri veniva considerato alla stregua di un dogma religioso, è stato improvvisamente messo in discussione. Welcome to the new normal!

Il mio editoriale, pubblicato oggi su La Stampa.

23 aprile 2020 – Quale che sia l’esito del Consiglio dell’Ue in programma oggi, a prescindere dal grado di solidarietà comunitaria che verrà espressa, è importante concentrarsi sulla realtà sottostante.

Non sarà un eventuale European Recovery Fund, né il piano Sure, né tantomeno il Mes, a salvare l’economia italiana, ma l’acquisto di titoli da parte della Banca centrale europea attraverso un vasto programma di Quantitative Easing prolungato nel tempo. In tutta Europa, in particolare in Italia, e negli Stati Uniti, i valori di indebitamento diventeranno significativamente più alti, e senza che ciò comporti rischi di bancarotta, default, o ristrutturazione. Ci faremo l’abitudine.

Lo ha scritto senza ambiguità Mario Draghi sulle pagine del Financial Times, un mese fa. Nel suo fondamentale intervento, l’ex presidente della Bce ha sostenuto che c’è solo un modo per evitare che la pesante recessione innescata dalla pandemia di coronavirus degeneri in una nuova Grande Depressione: «È chiaro», ha scritto, «che la risposta dovrà comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito osservata dal settore privato – e ogni debito contratto per colmarla – dovrà alla fine, in tutto o in parte, essere assorbita dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie, e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato».

Ecco qui la “nuova normalità”.

Ma che vuol dire, in concreto? Per capirlo è utile fare tre premesse.

Innanzitutto, bisogna essere consapevoli del fatto che, a fronte di un crollo del Pil di almeno dieci punti percentuali, e l’esigenza di risorse da spendere, il rapporto debito/Pil, oggi al 135 per cento, alla fine di quest’anno si collocherà tra il 160 e il 170 per cento. Impressionante? Sì, ma è altamente probabile. Anche dall’altra parte dell’oceano ci si aspetta che il debito pubblico degli Usa, dall’attuale 106 per cento, arrivi a superare il 120 per cento. Un livello che non si vedeva dal 1946.

«Ma l’Italia non è gli Stati Uniti», dirà qualcuno. «È molto più fragile!». Giusto. E questo ci porta alla seconda e alla terza premessa.

Nella zona euro – è la seconda premessa – non è stato solamente sospeso il Patto di Stabilità, e con esso l’obbligo di mantenere il rapporto deficit-Pil al di sotto del 3 per cento. Di fatto, tutto ciò che fino a ieri veniva considerato alla stregua di un dogma religioso, è stato improvvisamente messo in discussione.

Infine, la terza premessa: la Bce, che quest’anno acquisterà titoli italiani per centinaia di miliardi di euro, non smetterà di farlo il 31 dicembre del 2020 ma porterà avanti questo massiccio QE2 per diversi anni. È una condizione imprescindibile, perché solo in questo modo potrà essere assicurata la sostenibilità nel tempo dei debiti pubblici.

Questo è il new normal, questa la nuova normalità del debito. Se istituzioni come la Bce e il Fondo monetario internazionale, gli economisti, le banche e i governi faranno propria la tesi di Draghi e riconosceranno le premesse che ho appena esposto, i mercati finanziari si adegueranno. Punto e basta. Perché alla fine, la psicologia dei mercati finanziari, la percezione di cosa è accettabile e cosa non lo è, riflette il consenso di chi governa e gestisce l’economia mondiale.

Certo, è possibile che domani Standard and Poor’s declassi il debito italiano, portandolo a un solo gradino sopra il livello “spazzatura”. E, più in generale, le sorti dell’Italia dipenderanno molto dalla capacità dei partiti di governo di mostrarsi meno litigiosi e più responsabili. Una sfida notevole.

Diciamolo chiaramente: accanto al primo decreto da 25 miliardi, al nuovo, in arrivo, da 50 miliardi, e agli altri miliardi che senza alcun dubbio saranno necessari nei prossimi mesi, inevitabilmente bisognerà attingere ai 36 miliardi del Mes e ai fondi che verranno stanziati dallo European Recovery Fund, tenendo a mente che questi ultimi probabilmente non arriveranno prima della fine dell’anno.

In definitiva, l’Italia dovrà spendere tra il cinque e il dieci per cento del suo Pil – fino a 180 miliardi di euro – solo per salvarsi, e ancora più risorse per rilanciare l’economia. Ma se il mio ragionamento regge, se ci sarà davvero la “nuova normalità” che immagino, allora questa circostanza non porterà al default né a una ristrutturazione del debito, ma a una fragile fase di crescita zero per diversi anni, potendo però vantare alle spalle la solida rete di sicurezza della Bce. La Storia, ancora una volta, darebbe ragione a Draghi. E a chiudere il cerchio, sarebbe naturale vederlo al Quirinale allo scadere del mandato di Sergio Mattarella, nel gennaio del 2022.

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