L'ICONOCLASTA

Questa non è l’Italia: il nuovo libro di Alan Friedman è il perfetto necrologio del governo gialloverde

Ringrazio Linkiesta per questa lunga intervista, rilasciata in occasione dell’uscita del mio nuovo libro “Questa non è l’Italia” (Newton Compton Editori).

Il nuovo libro di Alan Friedman è il perfetto necrologio del governo gialloverde. “Questa non è l’italia” (Newton Compton) doveva essere la cronaca di quattordici mesi sovranisti tra retroscena e verità shock. Ma il suicidio politico di Salvini lo ha reso il testamento in tempo reale dell’eredità sovranista. Tria che cerca di eludere Di Maio perché le richieste del capo politico M5S sono irrealizzabili, Giorgetti e Zaia che pressano Salvini per andare al voto al più presto, il ritratto di Paolo Savona che sembrava imprescindibile per la vita politica italiana e ora è finito nel dimenticatoio. Ma anche il guru sovranista Steve Bannon, sbertucciato da Friedman con documenti e fatti che ne smascherano il mito, gli attacchi alla Commissione europea, lo spread alle stelle, i minibot (i minibot!). Oramai sembrano i capitoli di un’Italia diversa. Pare una vita fa, eppure il secondo governo Conte, quello giallorosso, ha giurato solo da sei giorni. «Spero finisca per sempre l’era dell’Italia incattivita, volgare, razzista, piena di odio e paura che Salvini ha promosso nella sua attività al governo. C’è stato un rigurgito da parte della vera maggioranza silenziosa italiana contro l’estremismo. Ora gli italiani hanno bisogno di un periodo di guarigione per leccarsi le ferite».

Friedman, anche la migliore delle guarigioni non può evitare le cicatrici.
Purtroppo il tessuto della società italiana è stato danneggiato dalla retorica dell’odio di Salvini che è riuscito a incattivirvi più di altri politici in passato. Ci vorrà un bel po’ di tempo prima di trovare l’equilibrio. Non succederà in due minuti. Ci vogliono mesi, anni.

Però Salvini continua a esasperare i toni. Accusa Parigi e Berlino di avergli teso una trappola. C’è stato davvero un complotto internazionale?
No, è stato un suicidio politico d’agosto. Matteo Salvini si è mostrato più furbo che intelligente. Come rivelo nel libro, fino alla fine di luglio Giorgetti e Zaia gli avevano detto di staccare la spina al governo, provocando un incidente per arrivare al voto a fine settembre, senza Giorgia Meloni e soprattutto senza Silvio Berlusconi. Ma Salvini li ha bloccati.

Perché?
Era ubriaco di potere. La sua arroganza intellettuale gli ha annebbiato la vista. Voleva andare alle urne solo dopo aver fatto la flat tax o almeno qualcosa da poter sbandierare con successo prima delle elezioni. E sapeva che i Cinque Stelle gli avrebbero permesso di tutto. Per questo ha cominciato a comportarsi come il padrone del Paese. Ha convocato le parti sociali al Viminale come se fosse il ministro dell’Economia. Ha detto di voler “pieni poteri”: Ha esagerato oltre ogni limite della decenza. Vedere il ministro dell’Interno nonché vice presidente del Consiglio ballare con le cubiste del Papeete è stato il più deplorevole, volgare e disgustoso insulto alle istituzioni italiane. Una mossa di bassa lega, in tutti i sensi.

Eppure gli italiani sono abituati. I mass media hanno attaccato per anni gli eccessi di Silvio Berlusconi.
Silvio Berlusconi paragonato a Salvini sembra un intellettuale, un gentiluomo e uno statista. Sembra la voce della moderazione e della ragione, anche se ovviamente non è così. Ma ormai il Cavaliere è al suo tramonto politico, non è più rilevante. Mentre Salvini è ancora una minaccia.

Addirittura.
L’ultimo capitolo del mio libro è un monito sulle conseguenze di un possibile ritorno di Salvini. Se tornasse al potere prima dell’elezione del presidente della Repubblica nel 2022, sarei seriamente preoccupato per la tenuta della democrazia e delle istituzioni italiane. Non tornerebbe come un politico moderato, ma spingerebbe sull’acceleratore tutte le politiche economiche sciagurate che non è riuscito a fare in questi mesi. Sarebbe come Rambo imbottito di steroidi.

Almeno per ora Salvini sembra sempre più isolato. Anche Donald Trump l’ha scaricato con un tweet, appoggiando “Giuseppi” Conte.
Non ne sono così sicuro. Conoscendo l’entourage di Trump, credo che ci sia stato un equivoco. Trump non si è reso conto che il governo giallorosso non sarà più filoputiniano ma filoeuropeo. Se lo avesse capito fin da subito non avrebbe mai fatto il tweet. E poi c’è l’effetto G7. L’Italia è stato l’unico membro del G7 ad appoggiare la ridicola proposta di Trump di riammettere Putin tra i grandi del mondo e cancellare le sanzioni contro la Russia. Come racconto nel libro è stato proprio Giuseppe Conte, in rappresentanza di Salvini, ad assecondare Trump. Una mossa esperta: a Donald piace essere lusingato e considera i tweet come ricompensa.

Parliamo di uno dei protagonisti della prima fase del governo gialloverde: Paolo Savona. Un anno fa la sua nomina a ministro dell’Economia sembrava decisiva per le sorti del Paese.
Conosco Paolo Savona da 30 anni, quando nel 1993 è stato ministro del governo Ciampi. Sardo, orgoglioso, un vero professore che mi ha trasmesso la sensazione di essere un uomo amareggiato per essere considerato un personaggio politico di serie B. Il governo gialloverde lo ha trasformato. È diventato un militante sovranista, la star del sovranismo. Lo spread si è impennato ogni volta che ha parlato di Piano B per uscire dall’Euro, di minibot e della Banca centrale che deve garantire il debito pubblico italiano. Alla fine è riuscito a ritagliarsi il suo spazio al centro della scena politica italiana, come sperava, ma in negativo.

E poi all’Economia c’è finito Giovanni Tria. Non ha preso bene le rivelazione che hai pubblicato nel libro.
Sì, ha minacciato di querelarmi perché ho rivelato che per ben due volte ha tentato di dimettersi senza riuscirci. E talvolta, se sentiva dire che Di Maio stava arrivando al ministero dell’Economia, cercava di nascondersi o di non farsi trovare in ufficio. Ho risposto a Tria che il mio è stato puro diritto di cronaca.

Leggendo i retroscena del tuo libro si ha l’impressione che parti dello Stato abbiano lavorato per limitare gli eccessi dei sovranisti.
I populisti li chiamano in modo dispregiativo il deep state, io invece considero i vari direttori generali e capi di gabinetto il meglio della burocrazia italiana. Daniele Franco della Ragioneria di Stato, Salvatore Rossi della Banca d’Italia, o Fabrizio Pagani. Nomi poco conosciuti ma che garantiscono la continuità di fatto dei governi italiani. Il politico adatto li sa valorizzare al meglio. È come andare a cavallo, se il cavallo pensa che hai paura non ti aiuta, se sai cosa fare ti fa galoppare molto lontano.

Perché non ci sono riusciti?
Perché il governo gialloverde è stato un garbuglio di neofiti confusionari e di sovranisti anti-euro. Non è un caso che Lega e M5s abbiano cercato di politicizzare istituzioni indipendenti. Il presidente dell’Anpal e dell’Inps sono stati scelti dai Cinque Stelle, la Lega ha nominato il capo dell’Istat e spedito Paolo Savona alla Consob. Questo è solo uno dei tanti modi con cui hanno ferito l’Italia, ben venga un nuovo governo, qualsiasi governo, che ci faccia respirare.

Ma i Cinque Stelle sono ancora al governo.
Sì, ma i conti pubblici e i posti chiave per l’Europa sono nelle mani di persone europeiste del Pd. La nomina di Roberto Gualtieri all’Economia e Paolo Gentiloni alla Commissione europea sono la garanzia che avremo un governo moderato, ragionevole, collaborativo. Nonostante i 5 stelle.

E Conte.
Fino a ieri diceva che le parole “populismo” e “sovranismo” erano dentro la Costituzione. Difendeva Salvini e i suoi provvedimenti. Oggi invece dice che questo governo è europeista. Spero che il suo trasformismo lo ancori all’europeismo. Però non prendiamoci in giro: questo governo è nato per due motivi, sterilizzare l’Iva ed eleggere il successore di Mattarella. La partita del Quirinale è la più importante, ma prima bisogna mettere a posto i conti.

E come si fa? Ieri alla Camera il presidente del Consiglio ha elencato i punti del suo programma ma è stato un po’ vago.
Nel libro ho analizzato la prima legge di bilancio del governo gialloverde. Conte aveva programmato una cifra ridicola per gli investimenti pubblici. E invece ha permesso a Lega e M5S di spendere i miliardi a disposizione per politiche redistributive pasticciate e malfatte come quota 100 e reddito di cittadinanza. Due fallimenti che non hanno avuto effetti positivi sulla crescita.

Però i soldi li troverebbe in deficit, come aveva promesso Salvini.
Si può anche fare deficit, ma non i 50 miliardi di debito promessi da Salvini che avrebbero creato un buco nei conti. La sua flat tax regressiva avrebbe favorito solo i ricchi. Nel libro propongo una possibile ricetta: premiare la qualità degli investimenti. Scatenano rapidamente un fattore moltiplicatore, creano temporaneamente occupazione e tamponano la crisi occupazionale e hanno effetto sui consumi. Quota 100 e reddito invece non hanno fatto crescere il Pil.

Quindi più autostrade, ponti, tunnel e ferrovie?
Non solo. Servono investimenti digitali. È vergognoso che l’Italia non abbia la banda larga in tutto il territorio nazionale. Se anche Sicilia, Calabria, Campania e il resto del Sud avessero una connessione internet potente in tutti i piccoli comuni si creerebbe più occupazione. Per esempio nel settore dell’e-commerce e lavori che si possono fare da casa. L’ultimo politico a capire questo, sono sincero, è stato Matteo Renzi.

In Europa forse ci sono le condizioni per dare più flessibilità. La futura presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, ha chiesto una riforma dell’eurozona. Cosa ne pensa della successore di Draghi?
Conosco entrambi, ma sono due persone molto diverse. Draghi è il banchiere centrale dei banchieri centrali: l’uomo più fine del mondo finanziario. Sofisticato, intelligente, geniale, modesto e umile. Lagarde è un politico di centrodestra francese, braccio destro di Sarkozy a cui ha scritto una lettera di fedeltà. Condannata per negligenza nello scandalo Adidas-Tapie che ha causato una perdita di svariati milioni di fondi pubblici. Quando era presidente del Fondo monetario internazionale nel 2011 su consiglio di Sarkozy era disposta a dare il prestito di 80 miliardi di euro all’Italia pur di fare fuori Berlusconi. Tutto questo per dire che non è estranea alle controversie, però negli anni si è costruita una reputazione di grande leader carismatica. Certo è una politica. E questo è un pregio è un difetto. Non sembra una buona idea avere un politico francese a capo della Bce ma forse serve proprio una figura del genere per spingere alla riforma del fiscal compact. Lo scopriremo solo vivendo.

(Intervista di Andrea Fioravanti, Linkiesta)

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