L'ICONOCLASTA

Deficit al 2,4% per 3 anni, Tria resta al suo posto. E lo spread sfonda quota 275

28 settembre 2018 – Accordo raggiunto sul deficit al 2,4% del Pil, dopo un lungo vertice a Palazzo Chigi con Conte, Salvini, Di Maio, Tria e Savona. Nella serata di giovedì si è svolto il Consiglio dei ministri che ha approvato il Def. Esultano i due vicepremier, Matteo Salvini, e Luigi Di Maio: «Accordo raggiunto con tutto il governo sul 2,4%. È la manovra del cambiamento».

E lo spread tra Btp e Bund arriva venerdì a oltre 275 punti base, mentre il Ftse Mib cede oltre il 4,2% – la performance peggiore in Europa – mentre le banche italiane vanno giù fino al 10%.

Il ministro delle Finanze Tria, nonostante abbia dovuto piegarsi, e di molto, rispetto a quanto aveva intenzione di concedere, non si dimette. Secondo il Sole24Ore, il ministro delle Finanze avrebbe ricevuto una telefonata del Capo dello Stato che lo pregava di restare al suo posto.

I numeri attorno ai quali si giocava la partita andavano dall’1,5-1,6% che era disposto ad accettare la Commissione europea senza scossoni (rispetto allo 0,8% che era stato stabilito per il 2019 dal governo Gentiloni) – una soglia che ancora avrebbe assicurato una riduzione, seppur minima, del deficit strutturale -, all’1,8-1,9% a cui si sarebbe spinto il ministro delle Finanze, Giovanni Tria, e fino al 2,4%, secondo i desiderata del M5s.

Mercoledì Salvini, gettando acqua sul fuoco, aveva dichiarato che «l’accordo c’è, lo zero virgola è l’ultimo dei problemi, nessuno fa o farà gesti eclatanti per uno zero virgola». Tuttavia giovedì mattina, ospite di Agorà, il capogruppo della Lega alla Camera, Riccardo Molinari, aveva minacciato: «Se Tria non è più nel progetto, troveremo un altro ministro dell’Economia». Un continuo gioco al poliziotto buono e poliziotto cattivo con l’obiettivo di pressare Tria e spingerlo all’angolo. «Non c’è in programma nessuna richiesta di dimissioni» del ministro Tria, aveva quindi assicurato da Bruxelles il vicepremier Luigi Di Maio.

Portare il deficit al 2,4% , come è stato effettivamente fatto, vuol dire dire liberare circa 27 miliardi in più rispetto allo 0,8% contenuto nel Def del governo Gentiloni. Una cifra che permette, oltre a sterilizzare l’aumento dell’Iva (12,5 miliardi), di finanziare l’avvio delle misure principali contenute nel contratto di governo, ovvero: flat tax, quota 100 e reddito di cittadinanza. Si tratta di una manovra costruita quasi interamente in deficit, nonostante Di Maio affermi di aver trovato i soldi tagliando gli sprechi e intaccando «i privilegi dei potenti».

Mercoledì, intervenendo a un convegno di Confcommercio, il ministro Tria aveva dichiarato di aver «giurato sull’esclusivo interesse della nazione e non di altri. Poi ognuno può avere un’idea dell’interesse della nazione». «Stiamo attenti – ha rincarato la dose Tria – perché a volte se uno chiede troppo poi deve pagare interessi maggiori e quello che si guadagna si perde in interessi. Se si perde fiducia sulla stabilità finanziaria nessuno investe, se si crede che domani c’è il disastro nessuno compra i nostri titoli».

Perché il vero problema non risiede in un’eventuale procedura d’infrazione da parte della Commissione, quanto nell’incognita rappresentata dalla reazione degli investitori che hanno comprato – e quelli che dovrebbero comprare in futuro – i nostri titoli di Stato. Una reazione che non dipenderà solo dai numeri ma anche, e forse soprattutto, da se e quanto le misure prese saranno considerate suscettibili di far crescere l’economia del Paese.

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