Dagli accordi di Camp David al patto con l’Urss. Il 39° presidente americano festeggia un secolo di vita dedicata ai diritti e alla giustizia sociale
Negli anni Settanta, quando governò da presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, che oggi compie cento anni, non fu considerato tra i grandi presidenti americani. La Storia, però, ha un modo strano di cambiare la percezione con il passare del tempo.
Carter è stato il primo presidente degli Stati Uniti a usare il potere della Casa Bianca per promuovere i diritti umani nel mondo. Ha condannato gli abusi dei diritti umani in Cile, Sudafrica e Unione Sovietica. Da presidente, ha fatto della non-proliferazione nucleare e della lotta alla povertà globale le sue priorità in politica estera. Nel 1978 e nel 1979, Carter è riuscito a portare Egitto e Israele a Washington per firmare i famosi “Accordi di Camp David” per la pace in Medio Oriente. Purtroppo, in seguito tali accordi non sono più stati applicati.
Carter ha cercato di infondere nella politica estera americana una nuova etica e un senso di giustizia sociale, che molti detrattori hanno considerato dabbenaggini.
Nel discorso del suo insediamento del 20 gennaio 1977, Carter aveva affermato: «Dal momento che siamo liberi, non possiamo mai essere indifferenti al destino della libertà altrove. Il nostro senso etico ci impone di preferire nettamente le società che hanno in comune con noi un rispetto continuo per i diritti umani dell’individuo».
L’Amministrazione Carter quindi ha espresso, individuato e concretizzato per la prima volta nella Storia americana una strategia per i diritti umani che è servita da pietra angolare per la politica estera di Carter.
Da giovane, poco più che ventenne, ho avuto l’onore di prestare servizio in un programma presidenziale speciale per neolaureati, e ho potuto così osservare a distanza ravvicinata il presidente Carter, il suo Segretario di Stato Cyrus Vance, il suo Consigliere per la Sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski e il suo Segretario della Difesa Harold Brown, tra gli altri.
Ho contribuito a redigere le lettere top secret per i colloqui dei negoziati sulle armi nucleari con Mosca (Salt) che il presidente Carter avrebbe poi spedito ai Primi ministri europei. Ho fatto parte della delegazione degli Stati Uniti ai negoziati di Vienna tra Nato e Patto di Varsavia per la riduzione delle forze armate, i colloqui tristemente denominati Mutual and Balanced Force Reduction Talk (Colloqui sulla riduzione reciproca ed equilibrata delle forze) o, come li chiamavamo noi in acronimo, i “MBFR talks”. Ho lavorato alle politiche di Carter alle Nazioni Unite. Ho visto la grandezza di quell’uomo, ma anche le sue debolezze.
In Carter ho visto un intellettuale, un filantropo, un uomo dal cuore profondamente buono e generoso. Ma ho visto anche come era facilmente manipolato dai suoi consiglieri, soprattutto Brzezinski, che aveva un complesso di inferiorità e sembrava voler sempre mettere in ombra il suo predecessore Henry Kissinger.
Ho visto Carter decidere a favore delle posizioni più aggressive contro i russi. Ho visto Brzezinski aggirare Cyrus Vance e il Dipartimento di Stato nelle prassi burocratiche della Casa Bianca.
È stata proprio la mia esperienza ai gradi più alti del governo Carter ad avermi infuso in certa qual misura una delusione e a persuadermi che era inutile trascorrere decenni in politica e nel governo a Washington, perché perfino un nobile visionario come Carter si imbatteva in difficoltà per realizzare qualcosa. Nella stanza dei bottoni, ho visto che non sempre i bottoni funzionavano. Ed è stato proprio quando ho lavorato per Jimmy Carter che ho deciso di lasciare Washington e diventare giornalista al Financial Times di Londra.
Purtroppo, la presidenza Carter era destinata a far fronte a una serie di ostacoli che lui non avrebbe superato.
Il nome di Carter resterà per sempre associato all’umiliante débâcle della “Crisi degli ostaggi in Iran”: nel 1979 i rivoluzionari iraniani fecero irruzione nell’ambasciata americana di Teheran, ne presero possesso e trattennero in ostaggio per 444 giorni 53 americani. Quel braccio di ferro, insieme al fallimento di una missione segreta per la liberazione degli ostaggi, avrebbe portato alla sconfitta di Carter alle elezioni per la presidenza del novembre 1980 e all’arrivo di Ronald Reagan.
Per i suoi detrattori Carter era un presidente debole e incapace, un idealista dalla politica estera ingenua. Il suo mandato è stato anche un periodo di disordini nazionali, cronica stagflazione (sincronia di crescita lenta e inflazione galoppante), una crisi energetica che provocò lunghe code alle stazioni di servizio, peggioramento dei rapporti con l’Unione Sovietica.
Eletto nel 1976 nella scia dello scandalo del Watergate che aveva portato alle dimissioni di Richard Nixon, Carter era un modesto coltivatore di noccioline proveniente da Plains, una piccola cittadina in Georgia. La sua carriera l’ha portato a diventare governatore di quello Stato, e sua moglie gli è rimasta sempre accanto.
Rosalynn Carter, mancata l’anno scorso a 96 anni, è stata sua partner nella vita e non solo una moglie. I Carter si sono impegnati per migliorare il mondo e, dopo aver lasciato la Casa Bianca, hanno dato vita al Carter Center a Plains lavorando fianco a fianco per decenni in innumerevoli progetti di pace, iniziative volte a eliminare le malattie in Africa, progetti edilizi per i poveri e molto altro.
Jimmy Carter era cresciuto in un’azienda agricola in un’epoca in cui i mezzadri di colore, che lavoravano nelle piantagioni del Sud dopo l’abolizione della schiavitù, erano trattati ancora come schiavi. Ha avuto molti amici afroamericani e si è indignato per il razzismo e la segregazione razziale in vigore a quei tempi negli Stati dell’America profonda del Sud. Nel 1971 ha preso in contropiede molte persone quando, nel suo discorso di insediamento da governatore della Georgia, ha dichiarato: «Il tempo della discriminazione razziale è finito».
Carter ha nominato giudici donne e avvocati di colore più di tutti i presidenti che lo l’avevano preceduto dal 1789 presi insieme. Ha concesso la grazia ai renitenti alla leva della Guerra del Vietnam, ha combattuto per proteggere l’ambiente, ha capovolto 75 anni di colonialismo statunitense restituendo a Panama la proprietà dell’omonimo Canale.
Arrivato il momento di andarsene, lasciò la Casa Bianca come tutti i presidenti americani a eccezione di Donald Trump, e ritornò a Plains, in Georgia. Jimmy Carter è un uomo d’onore, un uomo buono, e lo è sempre stato.
Negli ultimi anni, Carter ha vinto varie scommesse andando contro le probabilità. Nel 2018 gli è stato diagnosticato un cancro all’età di 94 anni ma, malgrado i pronostici dei medici, è ancora vivo. È in cura presso un hospice dal febbraio 2023, da ben 19 mesi. I medici lo davano per morto, ormai. Invece, Jimmy Carter compie cento anni e i suoi famigliari dicono che trascorre il tempo con loro e segue le notizie alla televisione.
Poco tempo fa, Carter ha detto di essere entusiasta all’idea di compiere cento anni, ma di esserlo ancor di più perché potrà «votare per Kamala Harris, il 5 novembre».
Questa, a ogni modo, è la sua aspirazione.
Traduzione di Anna Bissanti