L'ICONOCLASTA

Il lento declino dell’impero americano

Con la sconfitta registrata in Afghanistan, gli Stati Uniti, la più grande superpotenza del mondo, hanno perso la propria influenza e credibilità.

Biden è il terzo presidente Usa di fila a dimostrare che il proprio Paese non ha più intenzione di fare il poliziotto globale, mentre Xi Jinping e Putin osservano compiaciuti. Il mio articolo pubblicato sulla rivista Elettronica.

Gli Stati Uniti sono condannati a un declino irreversibile? Le divisioni che li attraversano sono ormai insanabili, e il loro impero è destinato alla dissoluzione dopo generazioni di decadenza? Oppure il popolo americano può risvegliarsi in qualche modo, invertire la rotta, fermare il declino, risalire la china e recuperare una qualche unità nazionale, un obiettivo comune? Il dibattito è intenso e aperto, le opinioni sono molteplici.

Una serie di fallimenti

usa pixabay

Le immagini indelebili delle folle che sciamano nell’aeroporto di Kabul, con i poveri disperati che si aggrappano agli aerei da trasporto C130 e precipitano andando incontro alla morte – un quadro complessivo di disfatta e sangue – con ogni probabilità verranno viste dagli storici del futuro come un esempio lampante di tutta una serie di fallimenti della politica estera statunitense, dopo la sconfitta in Vietnam del 1975, la crisi degli ostaggi in Iran del 1980 e la spinta isolazionista a trincerarsi nei propri confini al grido di America first, tendenza accelerata da Trump.

Il secolo della Cina

Anche prima della débâcle di Kabul molti membri ben informati delle élite nel mondo degli affari, della politica e dei media già sapevano che il ventunesimo secolo sarebbe stato il secolo del- la Cina.

Piaccia o non piaccia, il fatto che il Dragone stia diventando la nuova superpotenza economica globale è dato per acquisito da molti. L’unica questione aperta riguarda i tempi: la Cina supererà il Pil americano nel 2028, nel 2030 o qualche anno più tardi? Il processo, in sé e per sé, è inesorabile, o quasi.

Il declino dell’impero americano è adesso accelerato dalla sconfitta in Afghanistan e dall’umiliazione di vedere un governo terrorista talebano insediarsi a Kabul mentre l’America commemora il ventennale dell’attacco lanciato da Al Qaeda e da Osama bin Laden, che proprio dai talebani, e proprio in Afghanistan, ricevette aiuto e ospitalità. Il Presidente Xi Jinping sembra felicissimo di vedere annaspare Washington, e ha usato la catastrofe di Kabul come materiale di propaganda.

Vladimir Putin, che manipolava Trump mentre predicava la morte della democrazia liberale, è a sua volta deliziato dall’imbarazzo statunitense. Di sicuro ne trarrà ulteriore incoraggiamento a perpetrare le sue trame sullo scacchiere geopolitico.

I risvolti per l’Occidente

Per gli europei il vero problema insito nel collasso afghano non è la mancanza di coordinamento, non è non essere stati consultati, e non è neppure la grande questione del reale grado di competenza degli americani.

Il punto è che Biden è adesso il terzo presidente Usa di fila, dopo Obama e Trump, a dimostrare in modo plateale che il suo Paese non ha più intenzione di fare il poliziotto globale, e che anzi non vuole più preoccuparsi di conflitti cronicizzati in remoti angoli del mondo, né tantomeno esportare la democrazia. Biden è il terzo presidente a ignorare, se non tradire, i valori e le tradizioni su cui per lungo tempo si è incardinata la politica estera statunitense.

Una grandissima parte del popolo americano non nutre il minimo interesse verso l’Afghanistan, il Medio Oriente e persino l’Europa, e naturalmente l’era Trump ha gettato benzina sul fuoco dell’ignoranza e della xenofobia. Con un calcolo improntato al cinismo, Biden ha ritenuto di potersi permettere un ritiro caotico, perché nel giro di un paio di settimane l’Afghanistan sarebbe scomparso dalle prime pagine dei giornali, la gente avrebbe dimenticato. Purtroppo per lui, un terrorista jihadista ha fatto saltare in aria tredici soldati statunitensi all’aeroporto di Kabul.

Una “realpolitik” brutale

L’umore nazionale è cupo e scoraggiato, la nazione è divisa. Biden deve dare una scossa, e subito, se non vuole rischiare di perdere il controllo del Senato, e forse addirittura della Camera nelle elezioni di mid term del novembre 2022.

Perché se dovesse succedere, una maggioranza trumpiana bloccherebbe qualsiasi tentativo di riaffermare l’autorità della politica estera americana.

Ma anche nel caso in cui il presidente dovesse mantenere il controllo della legislatura fino al 2024, è già delineata quella che potremmo chiamare una “dottrina Biden”, in stridente disaccordo con la retorica idealistica della difesa della democrazia e dei diritti umani. È una realpolitik brutale, che prevede di abbandonare gli alleati e di rendere omaggio formale ai valori americani, senza però difenderli davvero.

A livello internazionale, Mario Draghi sta giustamente cercando di raggiungere una qualche forma di unità di intenti internazionale sull’Afghanistan, facendo leva sulla sua presidenza del G-20. Ma non sarà facile.

Negli Stati Uniti, nel frattempo, Biden si impantana in una nuova ondata di infezioni Covid, con un partito repubblicano trumpiano che prima aveva sostenuto con forza la firma apposta dal tycoon sull’accordo siglato con i Talebani a Doha nel 2022, mentre adesso non si fa scrupoli a criticare Biden per aver gestito male il ritiro.

Le conseguenze geopolitiche della sconfitta americana in Afghanistan sono una netta perdita di influenza e credibilità per la più grande superpotenza del mondo. Gli storici del futuro forse vedranno nel fiasco di Kabul una pietra miliare dell’abdicazione dell’impero.

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