L'ICONOCLASTA

Il mio pianto per l’America perduta

Il mio editoriale, pubblicato lunedì su La Stampa.

2 giugno 2020 Amo il mio Paese. Per questo, piango per il mio Paese, gli Stati Uniti d’America.

In teoria, sulla carta, secondo il nostro credo ufficiale, e secondo quanto scritto nella costituzione dai nostri padri fondatori, gli USA rappresentano la terra della libertà, un melting pot di diversità etnica e culturale, dove l’unione fa la forza. Fino a poco tempo fa, potevamo vantarci di essere il più grande esperimento di democrazia della storia.

Ma mentre il Paese barcolla, scosso dalle fondamenta dalle forze oscure del razzismo e della violenza, mi ritrovo a pensare se questo nobile esperimento non sia fallito. Noi americani stiamo vivendo un momento buio del nostro cammino. Il nostro presidente, democraticamente eletto, si comporta come un autocrate, un dittatore, un despota assai peggiore dell’ungherese Viktor Orban. Sta apertamente incitando all’odio etnico e fomentando l’aggressività. Minaccia di scagliare contro i manifestanti «cani rabbiosi» e «armi pericolose»; incoraggia la polizia e l’esercito a sparare sui cittadini che protestano in modo pacifico seguendo la tradizione di Martin Luther King Jr.

In più occasioni ha dichiarato che la stampa libera è «il nemico del popolo» e non stupisce vedere la polizia sparare proiettili di gomma contro i giornalisti e arrestare troupe di reporter televisivi. Sabato, nella mia città natale, New York, due macchine delle forze dell’ordine hanno investito di proposito una folla di manifestanti, ferendo quelle stesse persone che avrebbero invece dovuto proteggere. E non è accaduto in Minnesota, in Kentucky o in Alabama, ma a Manhattan!

Certo, alcuni lettori potrebbero trovare tutto ciò affatto sorprendente, trattandosi dello stesso presidente che ha elogiato gli assassini neonazisti di Charlottesville, definendoli delle «gran brave persone», e ha accettato con entusiasmo il sostegno del Ku Klux Klan e dei suprematisti bianchi che se ne vanno in giro con mitragliatrici e fucili d’assalto.

A dirla tutta, Donald Trump è un’aberrazione, un presidente caduto in disgrazia, che è stato sottoposto a una procedura di impeachment, un’anomalia storica; e, mentre ci avviciniamo alle elezioni di novembre, i sondaggi lo vedono nettamente dietro a Joe Biden. Ma proprio per questo, come ho già scritto su queste pagine, non si fermerà davanti a nulla per farsi rieleggere. Nei mesi che ci separano dall’election day, la sua retorica e i suoi comportamenti non mancheranno di scioccarci ancora. Con ogni probabilità, continuerà ad alimentare la violenza per distrarci dai suoi fallimenti, dalla realtà degli oltre 100.000 morti per Covid e degli oltre 40 milioni di americani che non hanno un lavoro. Sta già cercando di impedire l’esercizio del diritto di voto per corrispondenza perché, come ha ammesso esplicitamente, tenderebbe a favorire i democratici più degli elettori repubblicani. Non ha alcuna remora nell’accettare interferenze straniere nel nostro sistema elettorale, siano esse palesi o segrete.

Il New York Times, citando ben sette funzionari del governo americano che sono stati informati dai servizi di intelligence, ha riferito più di due mesi fa che il governo russo «ha intensificato gli sforzi per scatenare le tensioni razziali negli Stati Uniti come parte del tentativo di influenzare le elezioni presidenziali di novembre, cercando di incitare la violenza da parte dei gruppi suprematisti bianchi e alimentare la rabbia tra gli afroamericani».

Eppure, sembra che non importi nulla. Circa il 40-50 per cento degli elettori americani sembra disposto ad accettare qualsiasi dichiarazione o decisione di Trump. Il resto degli Stati Uniti, come me, è costernato.

La costituzione reggerà? I tribunali saranno in grado di evitare che il presidente compia azioni illegali? Diventeremo uno stato fallito o la nostra capacità di resilienza e le nostre forze intrinseche si riaffermeranno e riporteranno l’America alla sua prassi democratica? Non lo so. Lo spero, ma non ne sono sicuro.

Per questo, piango per il mio Paese.

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