Vorrei condividere con voi questa bella recensione di “Ammazziamo il Gattopardo”, firmata da Luca Ricolfi e pubblicata questa mattina da La Stampa. Buona lettura!
6 aprile 2014 – Strano destino, quello di Ammazziamo il Gattopardo, il libro di Alan Friedman che da settimane è nella parte alta delle classifiche di vendita. Il titolo e il risvolto di copertina ci informano che la missione del libro è presentare «un programma in dieci punti per rimettere l’Italia sul binario della crescita e dell’occupazione», sconfiggendo così il gattopardismo, quell’attitudine tipicamente italiana che ci porta a cambiare tutto perché nulla cambi davvero. Del libro, però, finora si è discusso quasi esclusivamente per la questione Napolitano (il ruolo del Presidente della Repubblica nel «cambio» Berlusconi-Monti, nel 2011), dimenticando tutto il resto.
È un peccato, perché – almeno ai miei occhi – il resto è ciò che dà al libro la sua sostanza. Sostanza letteraria, innanzitutto. I primi 7 capitoli sono essenzialmente ritratti di personaggi pubblici, da Monti e signora fino a Berlusconi, De Benedetti, Amato, Prodi e D’Alema. Questi ritratti sono straordinari, perché costruiti con una tecnica diabolica: anziché provare a penetrare nella personalità dei personaggi, fare congetture sui loro pensieri reconditi, esprimere giudizi e valutazioni più o meno soggettive sul loro operato, Friedman si limita a descriverli nel loro ambiente, come un etologo che osserva esemplari di una specie animale.
Talora il personaggio, con i suoi tic e le sue debolezze, viene fuori dall’intero capitolo, attraverso la descrizione del suo habitat: è il caso dell’esilarante capitolo su Massimo D’Alema («Lo spumante di Massimo»), che ci accompagna nella tenuta umbra del leader comunista, fra «filari di cabernet franc e pinot nero» e libri «importanti», come le memorie di Condoleezza Rice. Altre volte il personaggio viene fuori da poche pennellate: le espressioni facciali di Monti durante un’intervista, o il nervosismo dei coniugi Monti alle prese con i loro ospiti, a una cena organizzata «per incontrare e coltivare l’élite milanese». Altre volte ancora, per fissare un personaggio, basta mezza riga, come quando, parlando di «Mani Pulite» e del clima milanese del 1993, Friedman ricorda «un certo Di Pietro, all’epoca una persona che veniva presa molto sul serio». Insomma, pagine di una spietatezza volutamente leggera, talora crudeli, ma mai sarcastiche o astiose. Pagine sempre distaccate, direi quasi fredde, come si conviene a un osservatore attento dell’umanità.
Questo distacco verso i personaggi della telenovela (o commedia?) italiana Friedman lo mantiene anche nel giudizio politico, che non è mai «schierato». Friedman non nasconde né i suoi modelli (Clinton, Blair, Schroeder) né le sue simpatie (Matteo Renzi) e antipatie (Enrico Letta), ma fondamentalmente non si schiera per nessuna delle fazioni che hanno devastato l’Italia di questi anni. Persino su Napolitano il giudizio è sospeso e rimesso ai «costituzionalisti» e, quanto a Berlusconi, la volontà del giornalista di capire prevale nettamente su qualsiasi valutazione politica.
Ma il distacco viene meno, completamente meno, al momento di parlare dell’Italia e della ricetta per guarirla. Qui Friedman mette molta passione, una passione che come italiano ho riscontrato spesso (e talora ho trovato persino eccessiva), nei giornalisti-studiosi-professori anglosassoni trapiantati in Italia, da Paul Ginsborg a Bill Emmott. Friedman è convinto che l’Italia sia tuttora sull’orlo di un burrone, e che il tempo che resta a disposizione per salvarci sia pochissimo (un’affermazione probabilmente vera, ma che a me suscita una reazione di rigetto: l’ho sentito dire troppe volte, la prima da Ugo La Malfa nel 1974, esattamente 40 anni fa).
Secondo Friedman ormai «siamo a un minuto dalla mezzanotte per le sorti dell’economia e della società italiane». Ma che fare nel minuto che ci resta, prima che la mezzanotte ci precipiti nel suo abisso? La «Ricetta» di Friedman, cui sono dedicate le 70 pagine del capitolo 9, è fatta di 10 punti, per lo più articolati in obiettivi quantitativi precisi. La ricetta merita di essere discussa, e questo non tanto per la sua visione generale, che è quella di una sinistra moderna e liberale, quanto perché prende posizione in modo piuttosto preciso su alcuni punti che, anche fra gli studiosi di quel ceppo politico (sempre minoritario in Italia, ma ora rincuorato dall’affermazione di Renzi), sono sempre risultati controversi. Mi riferisco a tre questioni.
Primo: opportunità di un’imposta patrimoniale. Sì, risponde Friedman, ma solo se temporanea, leggera, limitata alla ricchezza finanziaria e, soprattutto, successiva all’attuazione delle riforme strutturali, altrimenti diventa un alibi per non farle.
Secondo: se e come abbattere il debito pubblico. Sì, il debito va abbattuto di 400 miliardi con un piano di dismissioni e valorizzazione del patrimonio pubblico, a un ritmo di 50 miliardi l’anno per 8 anni, fino a scendere sotto il 100% nel rapporto debito-Pil.
Terzo: se e quando rinegoziare i vincoli europei. Anche questo si può fare, ma solo dopo aver cominciato a ridurre il debito pubblico (l’esatto contrario di quel che sta facendo Renzi).
È convincente la Ricetta complessiva di Friedman? Difficile entrare nel merito senza un’analisi di ciascuno dei 10 punti di cui si compone. Qui vorrei solo dire che, a mio modesto parere, Friedman – forse proprio perché è americano e in Italia si è trovato benissimo – è un po’ troppo benevolo con noi. Le cose che Friedman immagina, temo che i politici italiani non le faranno mai, e non perché non funzionerebbero ma perché gli elettori non lo consentirebbero. La Ricetta, in altre parole, è sostanzialmente giusta ma difficile da digerire, specie là dove prevede tagli draconiani alla spesa pubblica (32 miliardi a partire dal 3° anno, più o meno quel che immagina di fare il commissario Cottarelli).
Dobbiamo concluderne che la ricetta è inservibile? Niente affatto. Per quel che capisco della società italiana, la ricetta di Friedman è così giusta e sensata che, per cominciare a raddrizzare la situazione, basterebbe fare la metà delle cose che lui immagina, una sorta di «FFF2 rule»: Fai Friedman Fratto 2 (ma fallo davvero). C’è un piccolo problema, però. La Ricetta prevede un presupposto politico cruciale, che oggi è venuto del tutto a mancare: «A mio avviso, scrive Friedman, l’Italia non potrà intraprendere un vero programma di cambiamento e rinascita finché non si saranno tenute le prossime elezioni politiche (…). Una cura radicale per il Paese implica un programma di cinque anni di vera stabilità, basata su un voto popolare».
Già, forse questo è il nodo. La Ricetta di Friedman, che molto si occupa del presunto sgambetto di Napolitano a Berlusconi nel 2011, nulla dice né potrebbe dire dell’effettivo sgambetto di Renzi a Letta nel 2013: il libro, infatti, è andato in stampa pochi giorni prima che Renzi facesse cadere il governo Letta, allontanando così, nessuno sa di quanto, il momento del ritorno alle urne.
Così il dubbio resta. La Ricetta è buona, Friedman lascia capire che Renzi potrebbe essere l’uomo giusto, ma proprio Renzi ha fatto venire meno il presupposto decisivo per applicarla. Gli italiani, a quanto pare, sono ancora in attesa di un cuoco che abbia le carte in regola per applicare la Ricetta di cui avrebbero bisogno.