In relazione alla presenza di Mario Draghi al meeting di Rimini c’è stato qualcosa di storicamente importante, e anche di politicamente importante.
Il mio editoriale pubblicato oggi su La Stampa
Storicamente importante perché ha avuto luogo esattamente due anni dopo la sua comparsa nell’agosto 2020, quando il suo nome non era ancora sulle labbra di tutti come quelle del salvatore che avrebbe potuto prendere le redini del governo dall’Avvocato del popolo. Adesso si chiude questo suo capitolo della sua vita. Il suo discorso è stato pronunciato dopo 18 mesi di leadership, i suoi successi nella campagna vaccinale, dopo aver preso in mano quel vago piano del progetto generale PNRR lasciato indietro dal Team Conte scrivendo un programma quinquennale di investimenti e riforme tempestivamente approvato. Draghi non ha esitato a citare i suoi successi in campo economico, la gestione soddisfacente dei conti pubblici, la crescita del Pil, e il calo del rapporto tra indebitamento e Pil. Sono tutti risultati concreti raggiunti con pieno successo.
Il discorso di Draghi, tuttavia, è stato importante sul piano politico perché rivolgendosi alla folla riunita a Rimini è riuscito a dimostrare in modo assai elegante quanto egli disapprovi quello che definisce l’approccio «sovranista» e «nazionalista». Lo ha fatto parlando dell’aggressione di Vladimir Putin e delle sue ambizioni imperialiste. Ha parlato dell’impegno dell’Italia nei confronti dell’Ucraina, della Nato, dell’Ue. Ha detto che il posto dell’Italia è nella Nato, e che non è un Paese con un approccio isolazionista in politica estera. Al sottoscritto che ha seguito attentamente il discorso è parso un avvertimento nemmeno troppo velato a un rischio di filoputinismo che sarebbe nocivo agli interessi nazionali italiani, specialmente se chi si dichiara oggi di essere nazionalista e sovranista finisce a legittimare i tentativi di Putin di espandere l’impero russo.
Nel momento in cui Matteo Salvini simpatizza di nuovo per Putin, mettendo in discussione il valore delle sanzioni ininterrotte contro la Russia e dichiarando anche che «l’Italia non può fare a meno del gas russo», Draghi è stato abbastanza chiaro. Ha detto esplicitamente che «Putin usa la fornitura del gas come un’arma di guerra» e ha aggiunto che grazie al lavoro di Cingolani e di altri per la sicurezza energetica all’Italia, un’eventuale interruzione del gas russo l’anno prossimo avrebbe un effetto minore sull’economia italiana. Non sarebbe la fine del mondo. A Rimini ho visto un grande Mario Draghi che con orgoglio ha rivendicato il Pnrr, le riforme, la credibilità che l’Italia ha conquistato. Senza fare nomi, Draghi ha bacchettato quei populisti che vogliono abrogare la riforma Fornero, che promettono pensioni di 1000 euro a ogni anziano, che propongono una flat tax regressiva e incostituzionale. Draghi, con il suo grande tatto, ha lanciato un avvertimento e un messaggio ai populisti e forse ai presidenzialisti quando ha detto: «Chiunque governerà, saprà preservare lo spirito repubblicano che ci ha animati».
Ascoltando il discorso di Draghi a Rimini, ho pensato all’enorme peccato commesso un mese fa da Giuseppe Conte, poi da Matteo Salvini e infine da Silvio Berlusconi che hanno fatto cadere il migliore presidente del Consiglio che l’Italia abbia avuto da decenni. Ho cercato di immaginare Meloni al posto di Mario Draghi a Palazzo Chigi, e ha iniziato a farmi male la testa. Ascoltando parlare Draghi ho creduto di sentire un chiaro avvertimento a Fratelli d’Italia, il partito la cui probabile forte leadership nel prossimo governo ha – giustamente o ingiustamente – già spaventato metà delle cancellerie d’Europa e la Commissione europea. Malgrado le stentoree dichiarazioni secondo cui lei è una «europeista» genuina, e una vera «atlantista», Giorgia Meloni è tuttora percepita fuori dall’Italia come un’euroscettica, una sostenitrice di Donald Trump, Steve Bannon e Vladimir Putin. È considerata la versione italiana di Marine Le Pen, forse un po’ più a destra di lei, a questo punto. È vista come un’alleata di Orban. È parso che Draghi avesse un avvertimento o due per Meloni in mente quando ha riassunto l’esigenza per il prossimo governo di essere credibile: «La credibilità interna deve andare di pari passo con quella internazionale. L’Italia è uno dei Paesi fondatori dell’Ue, è protagonista del G7 e della Nato. Protezionismo e isolazionismo non coincidono con il nostro interesse nazionale».
Il riferimento da parte di Draghi al protezionismo verosimilmente è un modo per dimostrare quanto gli dispiacciano le speranze che Meloni ripone nella possibilità di fermare la vendita di Ita a Lufthansa e forse anche la sua idea di nazionalizzare Tim di nuovo, ma chissà, potrebbe essere un riferimento alla scelta di Meloni di Giulio Tremonti come candidato nel suo partito. Il nome di Tremonti rafforza le preoccupazioni europee perché è un noto protezionista. È autore di libri sul protezionismo che però, come ha messo in guardia Draghi, non coincide con l’interesse nazionale dell’Italia. Insomma, più di un discorso di commiato, definirei il discorso di Draghi a Rimini un avvertimento. Draghi sa molto bene quali sono i rischi con i quali dovrà vedersela la nazione, e anche se in modo velato, a Rimini li ha messi quasi tutti in evidenza.
Traduzione di Anna Bissanti