Quali saranno le ripercussioni sul sistema bancario, sui conti pubblici e sull’economia reale del braccio di ferro tra Roma e Bruxelles? Dalla mia rubrica su La Stampa, Lo Specchio.
16 novembre 2018 – Ora che l’Italia ha risposto picche alla richiesta di Bruxelles di riscrivere la manovra, stiamo entrando in un territorio completamente sconosciuto. Il Belpaese rischia non solo che gli vengano inflitte sanzioni senza precedenti ma anche di subire pesanti ripercussioni sul sistema bancario, sui conti pubblici e sull’economia reale. Gli istituti di credito non hanno ancora finito di fare pulizia nei loro bilanci, appesantiti da una montagna di sofferenze, e c’è il rischio concreto di un indebolimento generalizzato che potrebbe far saltare qualche banca di piccole o medie dimensioni. In altre parole, il crollo della Carige potrebbe non rimanere un caso isolato.
E se lo spread tra Btp e Bund decennali si mantenesse ancora a lungo elevato, intorno ai 300 punti base, è chiaro che per i conti pubblici sarebbe un serio problema. Il costo per le casse dello Stato sarebbe quantificabile in almeno 5 miliardi di interessi aggiuntivi sul debito pubblico ogni anno, un peso che ricadrebbe sulle spalle dei contribuenti e che potrebbe (come rilevato anche dall’Fmi) vanificare qualsiasi effetto positivo sulla crescita generato dalla manovra. Per l’economia reale la minaccia si chiama recessione, o peggio. Il braccio di ferro con l’Europa sta nuocendo ulteriormente alla credibilità – invero già piuttosto scarsa – accordata al Belpaese dai mercati finanziari, e l’alto livello dello spread, sconquassando i bilanci delle banche, ha come conseguenza l’aumento del costo del denaro per le imprese, e dei mutui e prestiti per le famiglie.
C’è il rischio di un nuovo credit crunch, una stretta sui crediti, che andrebbe ad aggravare lo stato di un sistema già poco predisposto a erogare nuovi crediti alle piccole aziende. Ora che il governo gialloverde ha deciso di sfidare a viso aperto le regole del condominio della zona euro, l’unica certezza è che stiamo entrando in una fase caratterizzata da una profonda incertezza. Scopriremo presto l’insostenibile pesantezza derivante dall’essere un Paese sotto procedura d’infrazione, che si appresta a essere per mesi o anni un sorvegliato speciale dell’Ue, dell’Fmi e degli investitori internazionali. Certo, non è la Troika tradizionale, ma poco ci manca.
La storia della Carige illustra perfettamente cosa può accadere a una banca debole all’interno di un mercato che non ha grande volontà di fornire nuovi capitali. Lo spread elevato mina la stabilità di diversi istituti di credito. Il sistema è solido, ma ci sono banche più fragili, di piccole o medie dimensioni, ancora schiacciate dalle sofferenze e con difficoltà a ricapitalizzarsi.
Nel 2016 il governo Gentiloni ha autorizzato uno stanziamento di 20 miliardi per i salvataggi di Banca Etruria e le altre banche del Veneto; una spesa che, in buona parte, è già andata a ingrossare il debito pubblico. E purtroppo, un sistema bancario indebolito potrebbe facilmente comportare nei prossimi anni l’esigenza di intervenire con altri costosi salvataggi. Le piccole imprese – che nel 2019 potrebbero osservare una crescita esigua, se non addirittura la stagnazione dell’economia reale – saranno certamente esposte ai danni collaterali provocati dal perdurare di un alto livello di spread, sia in termini di difficile accesso al credito sia in termini di costo del credito.
Se l’obiettivo del governo gialloverde è quello di incrinare i rapporti con l’Europa e con i mercati finanziari fino al punto di provocare una crisi finanziaria o del debito, allora si sta comportando in modo ineccepibile. Se qualcuno pensasse invece che questa situazione potrebbe portare a un salvataggio da parte di Bruxelles o della Bce, sbaglierebbe alla grande. L’Italia sta per entrare in un lungo tunnel di sanzioni e ispezioni Ue, e al momento non si vede nessuna luce in fondo. Vorrei non essere pessimista, ma temo che questa storia non finirà bene.