L'ICONOCLASTA

NaDef, deficit a 2,4% nel 2019, 2,1% nel 2020, 1,8% nel 2021. L’esecutivo scommette sulla crescita

Aggiornamento: La Commissione europea scrive al ministro Giovanni Tria: “Il Def a prima vista sembra costituire una deviazione significativa dal percorso di bilancio indicato dal Consiglio Ue il che è motivo di seria preoccupazione”, affermano nella lettera il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis e il titolare agli Affari economici Pierre Moscovici, che aggiungono: “Chiediamo alle autorità italiane di assicurare che la manovra sia in linea con le regole fiscali comuni” della zona euro.

4 ottobre 2018 – Pubblicata giovedì sera e trasmessa alle Camere la Nota di aggiornamento al Def. Il governo afferma che nei prossimi 3 anni ridurrà il debito di oltre quattro punti: dal 130,9% di quest’anno al 130% nel 2020, e giù al 126,5% nel 2021. E il deficit, abbandonata l’idea di mantenerlo al 2,4% per i prossimi 3 anni, arriverà a quella soglia solo nel 2019, per poi scendere al 2,1% nel 2020 e 1,8% nel 2021. Ma c’è un ma. Tutto l’impianto di riduzione del deficit e del debito poggia su una strabiliante crescita del Pil, che tornerebbe a correre grazie alle misure introdotte dal governo. Un miracolo a cui, tuttavia, pochi economisti sono disposti a credere.

«Con gli interventi previsti in manovra – assicura l’esecutivo nel documento che fa da cornice alla manovra – il governo spingerà la crescita di 0,6 punti percentuali nel 2019, di 0,5 nel 2020 e di 0,3 nel 2021». Un incremento, quindi, dell’1,5% nel 2019, dell’1,6% nel 2020 e dell’1,4% nel 2021. Cifre su cui poggia l’intero impianto della manovra di governo e che superano di gran lunga le previsioni di tutti gli organismi nazionali e internazionali.

Nel 2019 saranno quindi avviati il reddito e le pensioni di cittadinanza e la riforma del centri per l’impiego (10 mld, di cui 3 verrebbero dall’assorbimento dei fondi per il Rei), quota 100 (7 mld) la flat tax per le partite Iva sotto i 65mila euro (2 mld) e il piano di assunzioni per le forze dell’ordine (1 mld).

L’8 ottobre sono in programma le audizioni in Commissione, il 10 il voto sulle risoluzioni alla Camera, mentre il 15 ottobre è il giorno ultimo per la presentazione della bozza di legge di bilancio a Bruxelles.

Una doccia fredda per l’esecutivo era arrivata mercoledì in mattinata dal Centro studi di Confindustria, secondo il quale «anche accrescere l’obiettivo di deficit programmato al 2,4% difficilmente consentirà di avere margini per attuare le misure di policy delineate dal Governo». Se l’esecutivo vuole realizzare quanto promesso, scrive Confindustria, «servono coperture credibili e un’ampia manovra lorda che includa una rimodulazione delle spese e delle entrate». Inoltre, viale dell’Astronomia taglia le stime di crescita per il 2019, stimandola allo 0,9%, in ribasso di 0,2% punti rispetto alle previsioni di giugno. Le stime «non incorporano le intenzioni del Governo» in attesa della legge di Bilancio ma, tra vari fattori, «pesano» anche «l’aumento dello spread» e – spiega il capoeconomista Andrea Montanino – «l’incertezza» sulla «capacità del Governo di incidere sui nodi dell’economia» e sulla «sostenibilità del contratto di Governo» che causa «meno fiducia degli operatori». Una brutta notizia per il governo, che – grazie alle misure che verranno attuate – punta a una crescita per il 2019 addirittura dell’1,6%, valore che permetterebbe di abbassare il debito pubblico nonostante il forte deficit.

In questo scenario caratterizzato da «crescita bassa e in rallentamento, debito pubblico molto elevato e tassi di interesse in aumento», conclude Confindustria, è ora «necessario e urgente agire, nella prossima legge di bilancio, con misure di politica economica che siano in grado di migliorare in modo strutturale tali tendenze e fornire certezze sulla linea di azione», avviando «un percorso del rientro del debito pubblico dopo quattro anni persi, attraverso misure che incidano sulla dinamica del Pil». Si tratta di un percorso «cruciale per rassicurare i risparmiatori che investono nel debito pubblico del Paese evitando che i primi segnali già osservati di di uscita di capitali dall’Italia si possano trasformare in un pericoloso trend».

Lunedì e martedì, ad agitare gli investitori, già con le antenne dritte a seguito dello svelamento delle intenzioni italiane di procedere a un importante aumento del deficit, ci sono stati diversi fattori: innanzitutto il rientro anticipato del ministro Giovanni Tria dal Lussemburgo, dove si trovava per una riunione con l’Eurogruppo, composto dai ministri delle Finanze della zona euro. Tria avrebbe dovuto partecipare il giorno successivo, martedì, all’Ecofin – simile all’Eurogruppo ma aperto a tutti i ministri delle Finanze dell’Ue – dove avrebbe dovuto convincere i colleghi europei della giustezza della manovra italiana. Tuttavia, ha scelto di tornare a Roma per lavorare sulla manovra, circostanza che è stata accolta con nervosismo sui mercati.

Contemporaneamente, sono arrivate dichiarazioni della Commissione europea poco concilianti. «A prima vista i piani di bilancio non sembrano compatibili con le regole del Patto di Stabilità», ha affermato il presidente della Commissione, Valdis Dombrovskis, seguito a rota dal Commissario agli Affari economici, il francese Pierre Moscovici, che si è già detto sicuro di «una deviazione molto, molto significativa» nelle cifre del Def gialloverde. «C’è qualche istituzione europea che gioca a fare terrorismo sui mercati», ha ribattuto a stretto giro il vicepremier Luigi Di Maio. «Me ne frego dell’Europa», è stato invece il lapidario commento, di mussoliniana memoria, del vicepremier Matteo Salvini.

A dare il colpo di grazia, martedì, ci si è poi messo l’economista della Lega e presidente della commissione Bilancio della Camera, Claudio Borghi, che in un’intervista Radio Anch’io, si è detto «straconvinto che l’Italia con una propria moneta risolverebbe gran parte dei propri problemi». Borghi è stato poi bacchettato dal presidente del Consiglio – che si è speso per tranquillizzare gli investitori, ribadendo che l’Italia non ha alcuna intenzione di uscire dall’euro – e dallo stesso Paolo Savona, ministro agli Affari europei e teorico del famigerato Piano B.

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