L'ICONOCLASTA

Obama e Pelosi costringono Biden a ritirarsi dalla campagna, ma Trump rimane forte

Una Convention «aperta» è a rischio caos. E di fronte c’è un avversario nemico della democrazia

Il mio articolo su La Stampa

La diga infine ha ceduto. A trentatré giorni dal disastroso dibattito con Trump del 27 giugno, il presidente Biden ha ceduto alle pressioni esercitate su di lui per ritirarsi dalla corsa elettorale. La campagna di tre settimane contro Biden è stata sferrata sia dai donatori milionari sia dall’élite del Partito democratico. È stata capeggiata, dietro le quinte e in una serie di strategiche soffiate ai giornali, da Barack Obama, Nancy Pelosi, Hillary Clinton, e numerosi membri del Congresso.

La campagna era iniziata in mezzo a profonde preoccupazioni per la sua età e la sua fragilità, ritenute eccessive per sconfiggere un Trump pieno di vigore, ma l’argomentazione più solida è stata un turbinio di sondaggi che hanno indotto Obama e Pelosi a mettere in discussione la fattibilità della candidatura. I sondaggi devastanti hanno mostrato che Biden stava perdendo nei cruciali Stati in bilico che saranno decisivi per le elezioni di novembre. La sensazionale notizia adesso apre la questione di capire chi subentrerà come candidato alla presidenza e potrebbe gettare il Partito democratico nel caos.

La crisi interna ai dem è come manna dal cielo per Trump e i suoi seguaci Maga del Partito repubblicano. Trump era già in testa a Biden nei sei Stati chiave e a livello nazionale. Adesso il Partito democratico dovrà raccattare i cocci di questa crisi politica e trovare un nuovo candidato da designare, che si tratti di Kamala Harris o di qualcun altro, entro l’inizio della Convention nazionale democratica di Chicago del 19 agosto. Il fatto che Biden abbia dato il suo sostegno o a Harris non comporta automaticamente il fatto che sarà lei la candidata del Partito.

Nel fine settimana, Nancy Pelosi aveva sguinzagliato 35 rappresentanti democratici della Camera e due senatori democratici che hanno chiesto a Biden di farsi da parte. Pelosi, Obama e i Clinton si sono adoperati in modo febbrile. Erano convinti che Biden sarebbe stato sconfitto e i timori erano così grandi che non si sono dati pensiero dell’umiliazione che hanno inflitto al presidente, che si dice si sia infuriato per gli attacchi. Il problema è che, adesso che Biden ha fatto un passo indietro, i sondaggi mostrano che anche Kamala Harris perderebbe nei “swing State” a favore di Trump.

A coloro che pensano che Biden possa incoronare Harris dico che farebbero meglio a ricredersi. Il Partito democratico è più lacerato da lotte di fazioni e sue correnti di quanto il Pd in Italia sia mai stato. Nel finesettimana, perfino Alexandria Ocasio-Cortez, che aveva difeso Biden, ha scritto su Instagram ai suoi follower: «Voglio condividere con voi la verità, voglio che vediate quello che vedo io, perché partecipo a vari meeting a Washington nei quali i democratici discutono del futuro di Biden. Non c’è un accordo su Kamala Harris come nuova candidata. Il Partito al momento è diviso, e vi sono molti punti di vista diversi».

La verità è che il Partito è in crisi dal 27 giugno. Nulla garantisce che l’iter per sostituire Biden con un nuovo candidato sia lineare o semplice. Al contrario: potrebbe spaccare il Partito e – con Trump e Vance che acquistano sempre più forza – la situazione sta indebolendo il Partito già adesso.

Se la Convention nazionale democratica, che si svolgerà a Chicago dal 19 al 22 agosto, sarà “aperta”, il quadro potrebbe farsi assai burrascoso, situazione che il Partito non ha più affrontato dal 1968. Una convention si dice “aperta” quando nessun candidato vi arriva con una chiara maggioranza di delegati e di conseguenza l’evento si trasforma in un tutti-contro-tutti, con aspiranti candidati che gareggiano gli uni contro gli altri partecipando a incontri riservati a ripetizione per cercare di convincere i delegati a votare per loro. Le probabilità di caos all’interno del Partito sono grandi.

L’élite del Partito democratico può anche essere riuscita a invalidare la candidatura di Biden, ma i democratici hanno le stesse probabilità di sconfitta con un nuovo candidato. Obama e Pelosi pensavano che, poiché Biden sembrava destinato a perdere le elezioni, qualsiasi altro candidato non potrà che fare meglio. Purtroppo, con poco più di cento giorni rimasti da qui alle elezioni del 5 novembre, non è ancora chiaro chi sarà quel candidato.

Nel frattempo, Trump fa passi avanti e durante il comizio di sabato sera ha dimostrato di essere ancora lo stesso demagogo isolazionista di ultradestra che è sempre stato. In particolare, è stato meschino nei suoi attacchi a Biden, che ha deriso ripetutamente. «È stupido. È una persona stupida. Ha un quoziente intellettivo basso» ha detto con livore. Trump ha deriso a lungo Biden che «cade dalle scale” e non riesce a capire dove dirigersi quando lascia il podio.

«Non sa che cosa cavolo fa» ha ruggito il truffatore condannato, il candidato repubblicano alla presidenza con due impeachment alle spalle. Trump ha poi coniato un nuovo nomignolo per Kamala Harris, prendendo in giro «Kamala la schiamazzante» per come ride. I follower Maga l’hanno adorato. Hanno adorato anche accogliere il nuovo Vance di ultradestra come candidato alla vicepresidenza. Un «uomo del popolo» amato dagli hillbilly meno istruiti, un cinico opportunista, un viscido voltagabbana, un uomo le cui politiche si collocano ancora più a destra di quelle di Casa Pound. Con Vance candidato alla vicepresidenza, nella prossima Amministrazione Trump non esisterà la moderazione. Vance è considerato una persona in grado di relazionarsi con gli elettori della middle class inferiore dei cruciali Stati in bilico del Midwest che saranno decisivi nelle elezioni di novembre. Vance, però, abbraccia idee neofasciste. Con i suoi 39 anni, inoltre, è abbastanza giovane da essere l’erede naturale del trumpismo in futuro, prospettiva quanto mai inquietante.

Vance ha detto a tutti quanto gli piace Benjamin Netanyahu e quanto il primo ministro israeliano dovrebbe essere libero di fare quello che gli pare e piace con i palestinesi. Vance è anche un ammiratore sincero dell’autocrate ungherese Viktor Orbán e da giorni, ormai, va ripetendo di essere molto d’accordo con la soluzione che Orbán prospetta per l’Ucraina, che sembra essere quella di fermare tutti gli aiuti militari a Kiev e, in sostanza, accettare la vittoria di Vladimir Putin. A Vance l’Europa non interessa. «Non mi importa niente di quello che succede all’Ucraina» ha spiegato. Neanche lo stato di diritto e la democrazia in generale interessano granché a JD Vance, e di sicuro non interessano a Orbán o a Trump. Sono entrambi grandi ammiratori e benintenzionati incoraggiatori della grande strategia di Putin.

In uno sconclusionato comizio di due ore nello stato chiave del Michigan, Trump ha definito Nancy Pelosi «pazza come una cimice» e poi è andato avanti a raccontare di nuovo in che modo metetrebbe in riga Europa e Cina, ai prodotti commerciali delle quali applicherebbe dazi del 100%. Dopo tre quarti d’ora di invettive, il protezionista Trump ha insultato per alcuni minuti il presidente francese Macron. Si è vantato di avergli telefonato e di averlo minacciato di imporre il 100 per cento di tariffe doganali sulle importazioni di «ogni singola bottiglia di vino e di champagne francese che entra negli Stati Uniti». Prendendo in giro Macron, Trump ha imitato la voce del presidente francese con una bizzarra sceneggiata, sminuendo il modo con cui «Macron mi ha detto che avrebbe dovuto richiamarmi e lo ha fatto immediatamente per comunicarmi che sarebbe lieto di cancellare i dazi francesi sui prodotti americani, per poi supplicarmi di non imporre dazi del 100% sullo champagne e infine concludere la telefonata chiamandomi con deferenza “Sir”».

A coloro che in Europa non credono alle minacce che Trump continua a fare sulla sua intenzione di dare inizio a nuove guerre commerciali, o mettere in discussione gli impegni dell’America in difesa degli Stati membri della Nato, o sul patto che stringerebbe con Putin per porre fine alla guerra in Ucraina «in sole 24 ore», il comizio in Michigan ha ricordato in modo alquanto brusco che, quando parla, Trump fa sul serio. Quando dice che a Washington ordinerà al ministro della Giustizia di perseguire i suoi nemici politici, non scherza. Dopo tutto, la sua Corte Suprema che pullula di giudici Maga gli ha concesso in pratica la facoltà di infrangere quante leggi e codici deontologici gli paiono e piacciono.

In Michigan il vero Donald Trump ha espresso a profusione elogi e ammirazione per dittatori come Putin e Xi, definendoli entrambi «molto intelligenti, molto tosti». Ha elogiato in particolare Orbán, raccontando ai presenti quanto l’uomo forte ungherese si sia congratulato con lui durante la sua recente visita a Mar-a-Lago. «Orbán è un tipo molto duro, davvero molto duro» ha detto Trump meravigliato.

Se eletto presidente – e soprattutto se i repubblicani conquisteranno sia la Camera sia il Senato – Trump potrebbe benissimo procedere alla «orbanizzazione» degli Stati Uniti, e portarci a navigare in acque sconosciute, perché l’America si trasformerebbe in una democrazia illiberale dove i concetti di stato di diritto, indipendenza del sistema giudiziario, diritti delle donne, diritti Lgbtq e libera stampa sono assoggettati al medesimo tipo di “riforme” che Orbán ha imposto in Ungheria.

Traduzione di Anna Bissanti

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