Alan Friedman intervistato da Marcello Pelizzari per il Corriere del Ticino
Giornalista e autore statunitense, firma eccellente di molte testate italiane e internazionali, Alan Friedman è stato nostro ospite nel podcast settimanale di CdT.ch. Gli abbiamo chiesto del suo nuovo libro, Il prezzo del futuro, edito da La nave di Teseo, ma anche di economia, guerra in Ucraina e prospettive. Citiamo, fra tante, una frase in particolare: «Se Putin non verrà fermato, l’ordine mondiale non ci sarà più».
Signor Friedman, partiamo proprio dal suo ultimissimo libro. Definito, citiamo, «una guida per evitare i pericoli e le trappole di un percorso accidentato e imboccare la strada giusta». In che senso?
«Questo è un libro che cerca di guardare al futuro dell’Italia e dell’economia europea, esaminando gli effetti della guerra in Ucraina e la situazione che si verrà a creare. Si tratta, altresì, di un futuro legato al potenziale di spesa di Next Generation EU, quello che gli italiani chiamano PNRR o Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: un piano da 220 miliardi di euro per investire nelle infrastrutture e nella transizione ecologica. Per avere questi soldi, però, l’Italia dovrà attuare certe riforme. E, purtroppo, la classe politica contiene dei populisti che mettono a rischio queste riforme con la loro opposizione. Un’opposizione, di fatto, preelettorale dal momento che nel 2023 si voterà per un nuovo governo. Queste premesse spiegano il sottotitolo del libro, ovvero perché l’Italia rischia di sprecare l’occasione del secolo. Bisogna risalire al 1951 per ritrovare un Paese con così tanti soldi a disposizione per creare occupazione, aiutare l’economia e, di riflesso, evitare la recessione mitigando gli effetti dell’inflazione, i problemi alla catena di fornitura e i costi delle materie prime. Sì, è un’occasione da non sprecare ma temo che la classe politica italiana, dopo Draghi, non sarà all’altezza del compito».
Glielo chiediamo nel più ampio senso del termine. Come sta l’economia, oggi, alle prese con una guerra che verosimilmente durerà ancora a lungo e sanzioni che stanno avendo effetti pure sulla nostra quotidianità?
«Cominciamo con gli Stati Uniti. Joe Biden è un presidente assediato, indebolito, con un partito repubblicano fortemente trumpista contro di lui e un Paese sempre più populista. Molti americani ritengono che l’inflazione all’8-9% sia proprio colpa di Biden. Non lo è, come non è colpa di Draghi o del presidente della Confederazione elvetica. La colpa, semmai, va ricercata nella guerra e nella crisi energetica che ha scatenato. Detto ciò, l’economia americana l’anno prossimo rischia la recessione. Anzi, potrebbe essere la Banca centrale, la Federal Reserve, a far scattare quasi volutamente la recessione: con l’inflazione al galoppo, la Fed aumenterà i tassi di interesse di mezzo punto percentuale almeno due o tre volte nei prossimi mesi. Il che, a mio avviso, creerà volatilità fra dollaro, franco ed euro, provocando anche problemi economici».
E l’Europa?
«Le previsioni per la zona Euro parlano di una crescita dimezzata: dal 4 al 2%. Francamente, però, con la guerra destinata a continuare e l’inflazione a durare, temo che la crescita sarà, nella migliore delle ipotesi, fra l’1 e il 2%. Lo stesso dicasi per l’Italia».
Che cosa deve pensare il risparmiatore, volendo ricorrere a un’espressione a lei molto cara? Che le cose stanno andando male e andranno ancora peggio in futuro?
«Come detto, mi aspetto un periodo di volatilità a livello di mercati. Sia da questa sia dall’altra sponda dell’Atlantico. Un periodo determinato dalla geopolitica, che provocherà momenti di paura e vendita. Vedo, fra l’altro, una gara strana e senza precedenti fra la Fed e la Banca centrale europea. Della serie: chi aumenta più velocemente i tassi di interessi? Assisteremo, quindi, a uno zig-zag delle valute e a molta incertezza. Sarà così a lungo, almeno finché ci sarà la guerra».
Nel suo libro ha intervistato diverse personalità di spicco della politica italiana e internazionale, fra cui l’ex presidente della Federal Reserve e attuale segretario al Tesoro statunitense, Janet Yellen. Le chiediamo, allora, anche considerando i legami storici e culturali fra Italia e Russia, se Roma riuscirà a smarcarsi definitivamente dal gas di Mosca e avviare la transizione energetica.
«Non è una questione di se, ma di quando. Perché la risposta è sì. Fra gli altri, ho parlato anche con Roberto Cingolani, che prima di essere nominato ministro della Transizione ecologica era Chief technology officer di Leonardo, è un fisico nonché un tipo molto schietto e bravo. Un tecnico, uno scienziato insomma. Ecco, Cingolani mi ha raccontato tutto il piano energetico per raggiungere l’autonomia dal gas russo entro la fine del 2023. Diciamo in 18-24 mesi. L’Italia, beh, è messa meglio della Germania, perché è partita prima. Già a inizio marzo Draghi ha mandato in giro lo stesso Cingolani e il ministro degli Esteri Di Maio. Algeria, Egitto, Mozambico, Congo, Qatar. In giro a raccogliere nuove forniture di gas per sostituire la Russia. Queste forniture, questa diversificazione se così vogliamo chiamarla, rappresentano circa un terzo dei 29 miliardi di metri cubi di gas che l’Italia deve sostituire Il resto? L’utilizzo delle rinnovabili per ora è un piccolo pezzo, ma importante. Poi ci sono i rigassificatori, che permettono di acquistare gas liquido: il governo italiano ha firmato contratti per rigassificatori flottanti attivi dal 2023. Quindi, venendo alla domanda, sì. È possibile smarcarsi dalla Russia. È chiaro, tuttavia, che se avvenisse un’interruzione di forniture da Mosca questo inverno o prima del 2023 vi sarebbe una recessione devastante. Per questo motivo, io dico che non ci sarà alcun embargo sul gas quest’anno. Se ne riparlerà nel 2023, qualora continuasse la guerra».
Perché alcune correnti politiche sostengono che l’uscita dal gas russo è una mossa orchestrata dagli americani?
«Non so perché dicano questo. È solo uno slogan. D’altronde, certe persone dicono anche che la guerra in Ucraina non è stata avviata da Putin ma che sia tutta colpa di Zelensky. Sono le stesse persone che promuovono tesi no-vax, complottismi e cospirazioni varie. C’è molta falsità, ci sono molte fake news attorno a questa guerra. Anche alla televisione italiana: pensiamo ai giornalisti russi, che tanto giornalisti non sono. Fanno disinformazione, come prevede la strategia di guerra del Cremlino».
L’Unione Europea ha mostrato una compattezza invidiabile sin qui, ma quando si è trattato di gas e petrolio sono emerse le prime, importanti crepe. Perché?
«Che Orban sia un problema dell’Unione Europea su questo tema e, ancora, che sia il filoputiniano numero uno in Europa non è una novità. Ma le cose si complicano se la Germania usa Orban per nascondersi, visto che i tedeschi temono di non essere abbastanza organizzati per supportare e sopportare un taglio del petrolio. Si arriverà, a un certo punto, all’embargo. Ma in ogni caso non comincerebbe prima del 2023».
L’Europa, quindi, continua a finanziare la guerra di Putin…
«Gli embarghi imposti finora, in fondo, non erano così importanti. Hanno colpito gli oligarchi, erano decisioni più che altro simboliche. Annunciare un embargo su gas e petrolio è un’altra cosa, è una faccenda seria. Soprattutto se pensiamo che, del miliardo di euro che l’Europa versa a Mosca ogni giorno, circa 400 milioni riguardano proprio l’oro nero. Nessuno vuole impegnarsi, tutti cercano di evitare una crisi questo inverno tant’è che, Italia compresa, c’è una forte preoccupazione circa gli stoccaggi con annessa rincorsa a riempire i serbatoi».
Dove ha sbagliato, se ha sbagliato, l’Occidente? Ovvero: le sanzioni stanno funzionando? O, appunto, manca il tassello più importante?
«Le sanzioni varate finora sono importanti. Nel mio libro, Janet Yellen spiega come lei e Mario Draghi abbiano lavorato assieme in particolare sulle misure nei confronti della Banca centrale russa. In generale, parliamo di sanzioni importanti ma che necessitano di tempo prima che abbiano un impatto. Detto questo, dobbiamo ricordarci che il 75% dell’export russo a livello di energia finisce in Europa. Se l’Europa tagliasse del 40% le sue importazioni, tagliando il petrolio, o addirittura il 100% includendo il gas, per Putin sarebbe un problema. Quel miliardo al giorno di cui parlavamo prima, infatti, gli serve per finanziare la guerra: il Cremlino spende fra i trecento e i cinquecento milioni di dollari al giorno per sostenere lo sforzo bellico. L’Europa, quindi, per fermare Putin deve fermare almeno il petrolio. Gli interessi economici, per ora, prevalgono ma è anche ragionevole che l’Europa, prima, voglia ottenere un po’ di autonomia dalla Russia per poi lanciare un embargo che potrebbe costarci 2-3 punti in termini di recessione. Infine, c’è una considerazione mia personale, piuttosto drastica».
Prego.
«Quanto vale la democrazia per noi? Quanti punti percentuali di crescita siamo disposti a perdere per proteggere un Paese invaso da un signore barbarico?».
La risposta è nell’attuale cristallizzazione del conflitto.
«Sì, c’è il rischio che quella in Ucraina si trasformi in una guerra congelata. Un secondo Nagorno Karabakh. Ma molto più grande e terrificante».
L’Occidente, però, andrebbe incontro a un dilemma morale non indifferente. Per tacere dei danni…
«Certo, danni economici, morali, di ogni tipo. A mio avviso l’Occidente non può permettere tutto ciò. Se Putin non verrà fermato, l’ordine mondiale non ci sarà più. L’ONU è stato depotenziato da Putin, visto che la Russia può porre veto. E che cosa fai se uno dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza è un dittatore sanguinario stile Saddam o Assad?».
La «nuova» arma a disposizione di Washington, ora, sembrerebbe essere quella di spingere la Russia verso il default tecnico. Ha senso una misura del genere o è troppo rischiosa?
«Può avere un effetto boomerang e danneggiare tanto le banche statunitensi quanto gli investitori istituzionali. È una strategia che va applicata con cautela, ma può infliggere danni notevoli alla Russia. È sicuramente un’arma che fa parte dell’arsenale di sanzioni a disposizione di Washington».