Il Dubbio mi ha intervistato in occasione dell’uscita del mio nuovo libro «Questa non è l’America» (Newton Compton editori). Buona lettura!
«Perché l’America è caduta così in basso? Come siamo entrati in un periodo tanto prolungato e profondo di sofferenza, paura e terrore, di angoscia, di cronica agonia nazionale? Cosa c’è dietro il nostro grido di dolore collettivo?». Per fornire una risposta il più possibile esaustiva a tale sofferto interrogativo il giornalista e scrittore Alan Friedman – autore di libri come Il bivio, Ammazziamo il Gattopardo (Premio Cesare Pavese) e My way. Berlusconi si racconta a Friedman, solo per citarne alcuni – ha condotto un’indagine a tutto campo, venendo a contatto con il malessere dell’America più profonda e il diffuso malcontento che avviluppa l’intera nazione, di cui l’elezione di Donald Trump costituisce il portato più diretto e significativo. Dalle zone rurali come il Mississippi agli eccessi di Wall Street, tra interviste a persone comuni come a personalità di spicco della politica e dell’economia, Questa non è l’America, pubblicato in Italia da Newton Compton, è espressione del tentativo di capire che fine abbia fatto oggi il sogno americano.
Alan Friedman, quali sono, secondo lei, le ragioni alla base della vittoria di Donald Trump?
A contribuire alla sua elezione sono stati diversi fattori, ma ne potremmo elencare sostanzialmente quattro. Prima di tutto, la sfidante Hillary Clinton, candidata del Partito Democratico, non riscuoteva grande popolarità, essendo avversata dal sessanta per cento degli americani. In secondo luogo, Trump ha usato bene il materiale fornito dagli hacker russi, i quali hanno passato a Wikileaks email imbarazzanti che documentavano i sotterfugi della macchina elettorale di Hillary Clinton contro Sanders e le cospicue parcelle di centinaia di migliaia di dollari con cui essa veniva pagata da Goldman Sachs. Il terzo motivo della sua vittoria è da ricercare nella sua grande popolarità di showman, essendo stato per quattordici anni star di The Apprentice. Infine, l’America è una nazione ferita, un Paese profondamente diviso dove serpeggiano rabbia e paura. Non è questa l’America che abbiamo sempre immaginato ma un’altra America che ho scoperto attraverso l’indagine da cui è nato questo mio ultimo libro. Trump ha saputo sfruttare la paura e la rabbia della gente povera, soprattutto dei bianchi, dei disperati del sottoproletariato, promettendo loro che tutto sarebbe andato bene. Credimi, ha ripetuto come un mantra, believe me. Ironia della sorte, saranno proprio questi poveri bianchi della classe operaia e del sottoproletariato i più colpiti dai tagli che l’amministrazione Trump sta per effettuare sul welfare, la scuola, la sanità e, più in generale, sulle tutele sociali.
Trump, in passato, ha finanziato diverse campagne elettorali di Hillary Clinton e donato 100.000 dollari alla Fondazione Clinton…
Trump non era un repubblicano quanto un reality tv star poi divenuto politico attraverso una scalata ostile contro il Partito Repubblicano. In passato è stato democratico, ha elargito fondi ai Clinton; sua figlia Ivanka era grande amica di Chelsea Clinton – adesso forse un po’ meno. Trump, più che essere un repubblicano, è un opportunista, è un uomo interessato esclusivamente a promuovere il proprio brand.
Dal punto di vista del welfare, si è registrata una parabola discendente da Reagan in poi, passando per la presidenza Clinton. Ora, con Trump, cosa bisogna aspettarsi?
Se vogliamo capire perché oggi l’America è così divisa e sofferente, dobbiamo ricordare che prima con Ronald Reagan, poi con Bill Clinton – che non si comportò da democratico quanto da repubblicano – e infine con George W. Bush, in un arco di tre decenni, quello che rimaneva del New Deal e delle tutele delle fasce più povere della popolazione è stato progressivamente smantellato con tagli al budget di decine di miliardi. Trump ha ricevuto in consegna un’America con un sistema di protezione sociale già molto indebolito. Detto questo, le politiche dichiarate dei ministri della sua amministrazione parlano da sole. Il nuovo ministro dell’Istruzione è la miliardaria Betsy DeVos, che ha finanziato l’estrema destra e donato più di venti milioni di dollari cercando di convincere il Congresso a tagliare il cinquanta percento dei finanziamenti nazionali destinati alle scuole pubbliche per favorire quelle private a orientamento evangelico-cristiano. Bisogna sottolineare che la maggioranza degli iscritti alle scuole private sono rappresentati da studenti bianchi. Il governo Trump conta un solo ministro nero, Ben Carson, assegnato allo sviluppo urbano: un conformista, non certo un esempio di militanza afroamericana. In questi giorni Trump si è recato per la prima volta al Museo di Storia Afro-americana a Washington e per la prima volta ha detto qualche parola gentile sui neri e condannato le decine di attacchi contro centri ebrei che stanno avvenendo in America: ciò è stato più un atto dovuto che sentito. Donald Trump non è amico dei neri.
La vittoria elettorale di Trump può essere considerata anche come una forma di rivalsa di certo elettorato bianco nei confronti dell’ex-presidenza Obama?
Da una parte Obama veniva percepito da tanti afroamericani come troppo timido, troppo prudente – atteggiamento derivante dal non voler dare l’impressione di favorire solo i neri quanto essere il presidente di tutti gli americani –, dall’altra si è verificata una rivalsa, una controrivoluzione a discapito dei neri, una sorta di risentimento contro il fatto che un uomo di colore sia stato per otto anni alla guida degli Stati Uniti. Trump ha soffiato sul fuoco del disagio sociale ed economico dell’elettorato bianco e ha tolto il cerotto dalla ferita di quel razzismo che si annidava sotto la superficie; l’ha fatto in modo cinico, grazie anche al supporto del suo ora chief strategist Steve Bannon e all’appoggio di razzisti dichiarati e dei suprematisti bianchi. Bannon, prima di essere l’uomo più potente della Casa Bianca di Trump, gestiva Breitbart News, sito di fake news – siti di ultra-destra di questo genere verranno presto introdotti anche in Europa – mentre ultimamente sta tessendo forti legami con Salvini in Italia, Le Pen in Francia, i neonazisti in Germania e Farage in Inghilterra.
Quanto influirà la vittoria di Trump sull’affermazione del populismo nei vari Stati europei?
L’effetto Trump si farà sicuramente sentire nelle prossime elezioni europee. I politici europei – come Le Pen in Francia e Geert Wilders in Olanda – di ispirazione razzista, xenofoba e populista traggono forza da Trump e ambiscono a presentarsi come la versione europea di quella tendenza che come uno tsunami si sta abbattendo contro la globalizzazione e l’immigrazione e che ha già condotto alla Brexit.
Cosa resterà dell’Obamacare sotto Trump e Tom Price, nuovo ministro della Salute?
Tom Price, che in sintonia con Trump vuole privatizzare il sistema pensionistico e la sanità, è il nemico giurato dell’assistenza ai poveri. Trump e i repubblicani hanno tuttavia un problema: hanno capito di non poter privare del tutto venti milioni di americani di quel diritto alla sanità che finalmente per la prima volta, negli ultimi tre anni, hanno acquisito attraverso l’Obamacare, e in particolar modo dei due elementi più popolari della riforma, ovvero la garanzia che un assicuratore deve concedere una copertura sanitaria anche in presenza di una patologia preesistente e la possibilità di mantenere i propri figli, fino a ventisei anni, all’interno della propria copertura assicurativa. Alla fine, chi soffrirà di più saranno comunque le classi più disagiate.
Secondo lei, l’amministrazione Trump approverà una legge sulle armi nascoste in tutti e cinquanta gli Stati dell’Unione e favorirà un ammorbidimento delle restrizioni sui fucili d’assalto e sui background check?
Questa è la direzione verso cui stiamo andando ed è quello che Trump, il Congresso repubblicano e la NRA – National Rifle Association, influente lobby della armi – vogliono. Non ci sono freni né vincoli, e di conseguenza l’America diventerà un Paese ancora più violento.