“Le possibilità che il presidente resti fino al 2020 sono scese ormai sotto al 50 per cento”. Il mio editoriale pubblicato domenica sul Corriere della Sera.
14 maggio 2017 – Il mio Paese è entrato da qualche giorno in una crisi costituzionale. Il licenziamento del direttore dell’Fbi James Comey costituisce lo scandalo più grande dall’epoca del Watergate, quando il presidente Richard Nixon rimosse il procuratore speciale che si occupava del caso. Trump, allontanando l’uomo che indagava su di lui sull’eventuale collusione nel 2016 tra gli uomini di Vladimir Putin e il team Trump ai danni di Hillary Clinton, potrebbe aver segnato l’inizio della fine della sua presidenza.
Nella politica degli Stati Uniti, a differenza di quanto accade in Europa e in Asia, mentire può costare molto caro al capo del governo. Negli anni Sessanta il presidente Lyndon Johnson ha mentito agli americani sulla Guerra in Vietnam, e questo ha segnato la fine della sua presidenza. Negli anni Settanta Richard Nixon e Henry Kissinger hanno mentito al popolo americano sulla Guerra segreta in Cambogia, e poi successivamente Nixon ha cercato di insabbiare l’indagine sul Watergate. Il risultato? Impeachment e dimissioni di Nixon nel 1974.
Da quando Trump ha licenziato Comey, martedì scorso, la Casa Bianca ha cambiato tre volte versione sulle motivazioni dell’allontanamento. Prima Trump ha affermato di aver licenziato Comey a causa di un’analisi del ministero della Giustizia che mostrava la sua incompetenza nell’indagine dell’Fbi dello scorso anno sulle email di Hillary Clinton. Una spiegazione che pochi in America hanno reputato credibile. Poi Trump, senza neanche aspettare il giorno successivo, ha annunciato di aver rimosso Comey perché «non faceva un buon lavoro”. Giovedì Trump ha quindi dichiarato di aver «sempre avuto intenzione di licenziare Comey, fin dallo scorso novembre». Poi è venuto fuori che Trump era furibondo con Comey perché si stava stringendo il cerchio intorno all’indagine sul Russiagate.
In questo momento, diversi costituzionalisti hanno iniziato a chiamare la situazione con il suo vero nome e avanzano la possibilità di un eventuale impeachment di Trump, basato non sulla sospetta collaborazione tra i suoi uomini e i servizi segreti di Putin nell’hackeraggio delle email della Clinton, email poi consegnate a WikiLeaks che con il team Trump avrebbe orchestrato la tempistica delle rivelazioni. No. Non per questo. Secondo gli esperti si tratta invece di «obstruction of justice», ostruzione alla giustizia, un tentativo chiassoso di impedire l’indagine della magistratura.
Spesso, nella storia degli Stati Uniti, i politici cadono non tanto per presunti reati quanto piuttosto per i tentativi di insabbiamento. Il primo articolo di impeachment contro Nixon fu proprio l’accusa di ostruzione della giustizia. E secondo me, prima o poi, anche Trump subirà la stessa sorte. Tuttavia, non penso che un impeachment sarà possibile finché i repubblicani controlleranno la Camera e il Senato, e quindi l’agonia del Russiagate potrebbe continuare per molti mesi, fino a dopo il voto del 2018, quando diversi seggi in entrambi i rami del Congresso saranno a rischio. L’incognita è rappresentata dal «fattore Trump», cioè l’eventualità che il presidente continui a mentire così tanto e così spudoratamente che anche i repubblicani a un certo punto potrebbero, per salvare le loro poltrone, decidere di gettar via questo affabulatore, questa star ignorante dei reality show, questo palazzinaro dei sobborghi di New York che ha così danneggiato la credibilità della Casa Bianca. Per me, le possibilità che Donald Trump rimanga alla Casa Bianca fino al 2020 sono oramai scese sotto al cinquanta percento.