L'ICONOCLASTA

Il «miglior uso» della flessibilità? What does «best use» really mean? Inutile perdere troppo tempo sulle parole. Alla fine l’Italia è rimasta indietro perché non ha fatto le riforme che UK e Germania hanno fatto decenni fa.

29 giugno 2014 – Durante e dopo il vertice europeo ho seguito con attenzione il dibattito nei giornali italiani sulla parola «flessibilità», inteso in termini di quanta flessibilità Renzi avrebbe potuto ottenere all’interno del Patto di Stabilità e Crescita. Secondo me, il dibattito è sbagliato.

Renzi ha fatto bene a ricordare alla Merkel e all’Europa che il Patto non richiede soltanto stabilità ma anche crescita. L’errore principale del governo Monti, secondo molti, è stato di deprimere l’economia con politiche di rigore dimenticandosi totalmente della crescita.

Ma diciamo le cose come stanno: il linguaggio del comunicato del vertice di Bruxelles non dice nulla di nuovo. In cambio delle riforme strutturali, l’Italia potrebbe usufruire dei piccoli meccanismi di flessibilità già scritti nel Patto. Si sa.

Sarebbe ottimo se «best use» significasse l’uso di certi fondi che poi non verrebbero conteggiati nel deficit o nel debito. Ma lo vedo difficile.

Invece gira e rigira, siamo sempre qui: per aumentare la competitività e la produttività dell’economia italiana bisogna fare le riforme che Blair ha ereditato e continuato in Gran Bretagna, e Gerhard Schroeder ha fatto in Germania tra 2003 e 2005. Cioè: una serie di riforme di vasta portata, in un periodo di tre o cinque anni. È questo che ci vuole in Italia, ma insieme con nuovi investimenti per la crescita e il pagamento dei debiti della P.a. alle imprese, per far girare un po’ di denaro nell’economia.

Nello specifico, a mio avviso, ora bisogna riscrivere le regole del mercato del lavoro in modo radicale, introducendo veri elementi di flessibilità che oggi qui non ci sono ma che sono ben presenti in Nord Europa, dove la disoccupazione è la metà dell’Italia. Bisogna realizzare una riforma della giustizia civile che renda le regole chiare, prevedibili e comprensibili dagli investitori. E poi tagliare gli sprechi e le spese inutili, andando ben oltre i 32 mld che Cottarelli offre nell’arco di tre anni. Si potrebbero risparmiare tra i 10 e i 15 mld all’anno con una riforma del Titolo V che tolga un sacco di competenze finanziarie dalle Regioni, di cui almeno 15 sono i veri spreconi del Paese. E questi risparmi devono poi andare a ridurre sia l’Irap sia l’Irpef di 15 mld nell’arco di tre anni. E aiutare a finanziare un minimo vitale per un milione di famiglie (6 mld di costo all’anno). I tagli dell’Irap e dell’Irpef devono rimanere permanenti e, se capisco bene, è proprio questa l’intenzione di Renzi e Padoan: continuare nel 2015 e oltre. Almeno spero che sia così.

Accanto alla riforma del mercato del lavoro e della giustizia civile, la riforma della P.a., quella del fisco, un rimodellamento del sistema di assistenza sociale, nuovi incentivi per aumentare l’occupazione femminile, più sovvenzioni per gli asili nidi, nuovi investimenti “public-private” e uso di fondi europei per settori strategici come infrastruttura e turismo, con sgravi fiscali per le imprese. Queste sono alcune delle riforme dell’economia e riallocazioni di spesa pubblica che dovrebbero fare parte di un progetto di vasta portata.

Ma tutte queste riforme non fanno scattare la crescita in sei mesi. Ci portano soltanto allo stesso livello dei nostri principali partner in Europa. Le riforme che l’Italia deve ora intraprendere sono il minimo indispensabile per darci una chance di competere. Senza queste, forget it!

Questo è il momento in cui l’Italia deve mostrarsi coraggiosa, rompere con il passato, cambiare mentalità ed entrare finalmente nel XXI secolo. È un momento storico. Un “make or break moment”, diremmo in inglese. In assenza di audacia, di azioni veloci e concrete, si rischia di esaurire il poco tempo a disposizione. E nessuna retorica sulla flessibilità nel Patto di Stabilità potrà più salvarci.

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