L'ICONOCLASTA

Il plotone Big Oil schierato alla Casa Bianca: l’alleanza tra Trump e l’industria petrolifera

L’Huffington Post ha pubblicato mercoledì alcuni estratti dal mio nuovo libro, Questa non è l’America (Newton Compton editori). Ripubblichiamo per voi.

24 febbraio 2017 – L’accordo da 500 miliardi di dollari tra l’amministratore delegato di ExxonMobil, Rex Tillerson, e Vladimir Putin. Il colpo di fulmine tra Donald Trump e lo stesso Tillerson, che sarebbe poi diventato suo segretario di Stato. E la scelta, da parte di Trump, di “scatenare tutto il potere di Big Oil” mettendo nei ministeri chiave personalità a favore della “rinascita dei cari, vecchi combustibili fossili”. C’è tutto questo – e molto altro ancora – nell’ultimo libro di Alan Friedman, “Questa non è l’America” (Newton Compton Editori). Huffington Post pubblica estratti del capitolo dedicato

al rapporto tra Trump e Big Oil, a partire dalla controversa figura di Tillerson.

“500 miliardi di dollari. Mezzo bilione.

Ecco quanto, secondo Vladimir Putin, valeva l’accordo appena firmato con il suo vecchio amico Rex Tillerson. Putin non è imponente fisicamente ma ha degli occhi di ghiaccio. Sorrideva alle telecamere piazzate nella stanza ben arredata della sua residenza estiva vicino al Mar Nero. Tillerson, il texano alto e robusto a capo della ExxonMobil, la più grande compagnia petrolifera americana, ricambiava l’affetto di Putin con un ampio ghigno.

I calici di champagne alzati in un brindisi. Avevano appena concluso un accordo tra la ExxonMobil e Rosneft, compagnia petrolifera statale russa, che garantiva a Exxon il permesso di sfruttare i vasti giacimenti offshore nella zona russa dell’Artico e nel Mar Nero. In cambio Rosneft avrebbe ricevuto delle quote di partecipazione in un certo numero di progetti della Exxon su territorio statunitense. Si stima che i depositi di idrocarburi dell’artico russo rappresentino circa il 22 percento delle riserve mondiali, più o meno l’equivalente di tutto il petrolio del Mare del Nord. Ecco spiegata la previsione di Putin sui 500 miliardi di dollari.

Senza dubbio si trattava di un accordo tra due protagonisti di caratura globale: da una parte il dittatore russo, dall’altra il capo della ExxonMobil, un’azienda che nel 2011 aveva raggiunto lo status di vera potenza internazionale, uno Stato all’interno dello Stato, una corporation americana così grande che se fosse stata un Paese si sarebbe piazzata al quarantunesimo posto nella classifica delle più grandi economie mondiali”.

Friedman si sofferma dunque sulla figura chiave di Tillerson e sui suoi legami con la Russia:

“La ExxonMobil, con un valore di mercato che si aggira intorno ai 360 miliardi di dollari, è un monolito sul palcoscenico globale, una corporation che si è spesso trovata in conflitto con la politica estera ufficiale degli Stati Uniti. Rex Tillerson ha raggiunto la vetta della compagnia in gran parte grazie ai suoi stretti legami con Putin e alla sua abilità nel chiudere accordi in Russia. Il coinvolgimento di Tillerson in Russia risale al 1998, quando venne nominato capo della filiale russa e responsabile di un progetto per lo sfruttamento di petrolio e gas sull’isola di Sachalin, di fronte alla Siberia. Un progetto gigantesco, che gli ha permesso di diventare vice presidente della compagnia, poi presidente, e infine presidente e amministratore delegato.

Più recentemente, nel 2011, Tillerson ha fatto infuriare il Dipartimento di Stato dell’amministrazione Obama quando ha chiuso un accordo con il governo autonomo curdo dell’Iraq, minando l’autorità centrale irachena in un momento in cui gli Stati Uniti cercavano di sostenerla e rafforzarla. E ha informato il Dipartimento di Stato solo dopo la conclusione dell’accordo. A giochi fatti.

In qualità di capo della ExxonMobil, è stato un fiero avversario delle sanzioni contro la Russia, che ha definito inefficaci. Per Rex Tillerson, il colpo di mano che ha portato all’annessione della Crimea non era una questione commerciale ma solo una faccenda di politica locale. Perché mai si dovevano imporre sanzioni alla Russia, o a singoli oligarchi e apparatčiki come Igor’ Sečin di Rosneft, pupillo di Putin che veniva esplicitamente citato nelle sanzioni di Obama? Per Tillerson, il capitalismo fondato sulle amicizie personali e l’espansionismo russo erano semplici elementi del gioco: non una fonte di preoccupazione, solo un dettaglio del quadro locale”.

Tillerson – continua Friedman – è “un tipo tosto”. E anche per questo fa subito breccia nel cuore di Donald Trump:

“Tillerson, ha detto Coll, nonostante il suo grande potere e la mancanza di una bussola morale, è un «uomo gradevole». Un maciste con un grande sorriso e una spacconeria tutta texana. Come molti titani di Big Oil che calcano spavaldamente il palcoscenico mondiale, e al pari degli oligarchi e dei signori della guerra con cui trattano quotidianamente, Tillerson è un tipo tosto. E Donald Trump ama i tipi tosti. Ama i leader forti. Questo è chiaro. Perciò non c’è da sorprendersi che lui e Trump si siano “presi subito” al loro primo incontro alla Trump Tower, all’inizio di dicembre del 2016. Questione di chimica.

Donald Trump non ha effettivamente incontrato Tillerson se non una settimana prima dell’annuncio della sua nomina a Segretario di Stato. Ma il suo nome gli era stato caldeggiato più volte da parte di due veterani dell’amministrazione Bush: Condoleezza Rice, ex Consigliere per la Sicurezza nazionale, e Bob Gates, ex Segretario alla Difesa ed ex capo della CIA”.

Friedman si focalizza poi sugli altri “campioni di Big Oil” scelti da Trump per la sua squadra. Nel giorno stesso in cui annunciava la nomina di Tillerson agli Esteri, il presidente faceva “sapere per vie informali di aver chiamato nel suo team un altro texano con un immacolato pedigree di campione della Big Oil, un altro amico dei combustibili fossili che negava l’esistenza del cambiamento climatico”.

“Rick Perry per molti americani era solo l’ex governatore del Texas che aveva clamorosamente fallito in un dibattito per le primarie repubblicane. Molti hanno ridicolizzato il povero Perry per il suo «Oops» nel novembre del 2011: durante un dibattito in TV, snocciolando le sue credenziali di conservatore, ha giurato che se fosse stato eletto presidente avrebbe abolito tre interi ministeri.

«Tre ministeri scompariranno nel momento stesso in cui metterò piede alla Casa Bianca», ha detto Perry, aprendo la mano sinistra per enumerarli. «E sono il Commercio, l’Educazione, e… oh, oh, qual era la terza… uh… vediamo…». Si è interrotto, ha perso il filo, non riusciva a ricordare. Il pubblico presente si è messo a ridere. Il tutto ripreso a colori e in diretta sulla televisione nazionale. Rick Perry, un uomo non certo rinomato per il suo intelletto, pareva in quel momento più ottuso di Forrest Gump. Si è sforzato di ricordare, tra le risatine del pubblico: «Commercio, Educazione e…». Niente da fare. Perry ha ripreso a balbettare. Il presentatore della CNBC gli ha chiesto se riusciva a rammentare il nome del terzo ministero. Il governatore texano, in chiara difficoltà, ha fatto un altro tentativo. «Il terzo ministero… mi sbarazzerei dell’Educazione…». Si è fermato ancora e questa volta il giornalista gli ha suggerito: «Commercio». Un Perry colmo di gratitudine ha ribadito: «Sì, Commercio. E, vediamo…». Nuova incertezza. «Non mi viene in mente. Il terzo. Scusate. Oops». La frittata era fatta. Il candidato repubblicano, il cowboy texano, si era immolato. Rick Perry.

E allora qual è il Dipartimento che Donald Trump ha affidato a Rick Perry? L’Energia. Il ministero che voleva abolire. Quello che aveva stabilito gli stessi regolamenti che per anni Perry aveva cercato di abolire con tutte le sue forze. Può essere una coincidenza, certo, anche se sembra rientrare alla perfezione in un quadro più generale. Donald Trump ha dato il mandato di gestire il Ministero dell’Energia al pupillo della comunità texana del petrolio e del gas, un vero amico dei combustibili fossili. Ha nominato come principale responsabile nazionale del settore una persona intenzionata a smantellare gran parte delle normative che regolano il settore energetico del Paese. Come Tillerson, Rick Perry si dà arie da cowboy; è raro che esca di casa senza i suoi classici stivaloni. I due si conoscono, e del resto è normale in una comunità così piccola come quella dei petrolieri e dei politici”.

Alla coppia Tillerson-Perry si aggiunge poi la nomina di Scott Pruitt a direttore dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente (EPA):

“Mentre la ExxonMobil e il resto dell’industria petrolifera texana celebravano le nomine di Rex Tillerson e Rick Perry, un ideologo di destra ancora più militante e amico dell’industria del petrolio veniva chiamato da Trump a gestire l’EPA stessa.

Scott Pruitt, procuratore generale dell’Oklahoma, è da anni un accanito sostenitore degli idrocarburi e un nemico delle energie alternative e rinnovabili. Nega con forza il cambiamento climatico. Ha fatto causa all’EPA per bloccare i regolamenti sulle emissioni.

Pruitt rifiuta la scienza climatica convenzionale con lo stesso fervore ideologico, quasi religioso, con cui un repubblicano di destra dell’Alabama potrebbe rigettare la teoria dell’evoluzione di Darwin. Ha incentrato l’intera carriera sull’obiettivo di minare le basi della scienza ufficiale a vantaggio di Big Oil […].

I gruppi ambientalisti si sono infuriati per la nomina di Pruitt, forse anche più che per quella di Rick Perry all’Energia. Pruitt, secondo loro, è sempre stato un burattino nelle mani dell’industria dei combustibili fossili, e avrebbe fatto fare un balzo indietro agli standard dell’inquinamento dell’aria, favorendo l’industria del gas e del petrolio come sempre nella sua carriera. E poi era un campione del Dakota Access Pipeline e di tutti gli oleodotti d’America”.

Infine, l’ultimo tassello del plotone Big Oil portato da Trump alla Casa Bianca: Ryan Zinke come segretario agli Interni:

“Per cancellare i regolamenti sull’ambiente e spianare la strada all’industria petrolifera, permettendole di fratturare e trivellare in tutta l’America, l’amministrazione Trump doveva completare i propri ranghi con un Segretario degli Interni che non si facesse scrupoli a dare a Big Oil un più ampio accesso al suolo pubblico. Come il nuovo Segretario per l’Energia e il nuovo capo dell’EPA, anche il nuovo Segretario degli Interni negava l’esistenza del cambiamento climatico.

La scelta di Trump è ricaduta su Ryan Zinke, ex membro delle forze speciali della Marina degli Stati Uniti, i cosiddetti Navy Seals, e deputato repubblicano del Montana di fresca elezione. La nuova posizione di Segretario degli Interni gli assicurava un’ampia autorità su più di un quinto delle piattaforme offshore, sui parchi e sulle riserve, e perfino sui rapporti con le tribù indiane. Zinke era l’ultimo perfetto tassello per completare la conquista di Washington da parte di Big Oil”.

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