18 febbraio 2014 – È da anni che tanti economisti e imprenditori, il Fondo monetario internazionale, la Commissione europea e soprattutto il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ripetono un mantra economico per aiutare l’Italia a migliorare la sua produttività e competitività e creare le precondizioni per la crescita e l’occupazione. Questo mantra, che suona male o è addirittura incomprensibile per la gente comune, ha per titolo «riforme strutturali».
L’espressione viene spesso confusa con i vincoli europei di Maastricht, compresi quelli più discutibili come il famoso tetto del 3 per cento del rapporto deficit/Pil. Ma non è questo il punto. Le riforme strutturali significano una riforma del mercato del lavoro seria che renda più facili le assunzioni in tempi buoni e l’interruzione dei rapporti di lavoro in tempi di crisi, una riforma del sistema pensionistico (già molto migliorato con la controversa ma efficace riforma Fornero) in modo che lo Stato non faccia regali a chi non ha versato contributi sufficienti, e una serie di altri interventi sul Fisco, sull’organizzazione dello Stato (in particolare nella Pubblica amministrazione) e altre misure che possano liberare l’energia e il dinamismo di un Paese che da un ventennio non riesce a reinventarsi.
Intendiamoci: qui non stiamo parlando dell’esigenza di tenere ordine nei conti pubblici o di ridurre la spesa pubblica corrente e le tasse, cose che vanno fatte a prescindere del resto. La ripresa in atto in questo momento non è una vera ripresa. A mio avviso, il termine migliore sarebbe stagnazione con rischio deflazione. La disoccupazione aumenterà ancora quest’anno, e non sarà sicuramente una ripresa dello 0,7 per cento nel 2014 a creare occupazione. Le riforme per rilanciare la crescita, come credo Matteo Renzi sappia benissimo e come ha detto Mario Draghi alla Luiss di Roma nella primavera del 2013, devono passare attraverso «un’efficace promozione della concorrenza», un «adeguato grado di flessibilità del mercato del lavoro che sia ben distribuito fra generazioni», una burocrazia pubblica «che non sia d’ostacolo alla crescita» e «un capitale umano adatto alle sfide poste dalla competizione globale».
Negli ultimi decenni i governi che hanno dato il migliore esempio di come rilanciare la crescita e occupazione attraverso una serie di riforme di vasta portata sono stati quelli di Bill Clinton, di Gerhard Schröder, e sì, di Tony Blair (anche se sono in disaccordo con le sue disavventure in Iraq). In Italia, quando Prodi nel 1999 ha cercato di seguire questa cosiddetta «Terza Via» tra equità sociale e libero mercato, le forze di conservazione della sinistra si misero di traverso. Oggi, a mio avviso, è proprio questo mix di liberismo e coscienza sociale, che oramai non è di destra o sinistra ma pragmatico buonsenso, che l’Italia dovrebbe seguire.
Nei colloqui che ho avuto con Renzi per il mio nuovo libro ho chiesto al sindaco di Firenze, nel novembre scorso, perché in Italia sembra così difficile concepire una politica economica di tipo clintoniano o blairiano, con elementi di liberismo ma che comprenda anche la tutela della fascia più debole, compreso un rimodellamento dell’assistenza sociale e un nuovo minimo vitale. «Non so perché sia stato così difficile fino ad ora», mi ha risposto Renzi, «ma io sono convinto che sarà facile provarci per i prossimi mesi».
Ora, secondo me, la ricetta per rifare il Paese è composta non solo da un Jobs Act serio, ma anche da tagli drastici al cuneo fiscale, da un nuovo minimo vitale, sgravi fiscali per stimolare l’occupazione femminile, incentivi per incoraggiare fondi pensione privati, risparmi massicci nella sanità senza togliere servizi ai cittadini attraverso un intervento sul Titolo V che ricentralizzi tante competenze ora nelle mani delle Regioni, ma anche, e infine, un piano per l’abbattimento del debito che sfrutti il patrimonio pubblico senza svenderlo.
Troppo ambizioso? Impossibile? Per ottenere questa ricetta choc in senso positivo ci vorrebbe o un forte mandato elettorale o un forte consenso politico che Renzi deve costruire nei prossimi giorni, settimane e mesi. La crescita non si inventa con la bacchetta magica. È frutto dell’insieme di tutte queste cose, che rappresentano le precondizioni per la crescita e occupazione.
Ora vedremo se il nuovo primo ministro sarà capace di intraprendere finalmente un programma serio per un Paese a terra. Ora vedremo se il Rottamatore diventerà il Catalizzatore, l’uomo che rompe finalmente il muro del conservatorismo che blocca il Paese. A mio avviso siamo davanti a una last chance, un’ultima occasione.
(pubblicato sul Corriere della Sera di lunedì 17 febbraio)