In occasione della Giornata Internazionale della Donna, pubblichiamo un brano tratto dal capitolo 9 di Ammazziamo il Gattopardo (Rizzoli, 2014), in cui spiego perché l’Italia dovrebbe fare molto di più per incentivare l’occupazione femminile.
8 marzo 2016 – Per certi versi, per troppi versi, l’Italia rimane un Paese maschilista. Non parlo del ruolo della donna nella società in generale, tema che lascio ai sociologi. Ma da economista dico che l’Italia si sta facendo del male per la sua incapacità (o mancanza di volontà?) di utilizzare il talento e l’energia di milioni di donne che incontrano troppi ostacoli a entrare nella forza lavoro. Per me una ricetta che non comprenda iniziative precise e mirate ad allargare lo spazio dell’occupazione femminile non è degna del suo nome.
La mancanza di una tutela maggiore dei diritti delle donne nell’economia e di una politica mirata all’occupazione femminile è un problema serio, e per tutti gli italiani, perché rischia di rallentare la ripresa e la crescita.
L’occupazione femminile in Italia è troppo bassa. Qui lavora il 46,5 per cento delle donne, contro il 59,7 in Francia, il 64,5 in Gran Bretagna e il 67,7 in Germania. La media in Europa è del 60 per cento. Non ci siamo. L’Italia non si è ancora allineata agli obiettivi europei, che chiedevano di raggiungere entro il 2010 un tasso di occupazione femminile pari ad almeno il 60 per cento. Per renderci meglio conto di quanto questo ritardo influisca sulla nostra economia, basti pensare che, secondo la Banca d’Italia, se l’occupazione femminile raggiungesse quota 60 per cento si potrebbe avere un aumento del Pil di 7 punti. Secondo l’Ocse, il Pil italiano potrebbe addirittura crescere del 22,5 per cento entro il 2030 se il tasso di occupazione delle donne eguagliasse quello degli uomini.
Il mero fatto di avere un basso livello di occupazione femminile significa che l’economia soffre.
Se vogliamo parlare in modo serio di crescita dobbiamo affrontare la questione con nuove regole che promuovano l’uguaglianza in termini di stipendi tra uomini e donne, incentivi fiscali per l’occupazione femminile e sovvenzioni che triplichino la copertura di asili nido in tutto il Paese, e non soltanto in due o tre regioni.
Sul fronte dell’uguaglianza di stipendio siamo meno lontani di quanto si possa immaginare. Secondo i dati della Commissione Europea, in Italia le donne guadagnano in media il 5,8 per cento in meno degli uomini. Il divario diventa il 22,2 in Germania e il 14,7 in Francia. Quindi l’Italia, sorprendentemente, non è così scorretta o indietro sugli stipendi. Almeno così dicono i dati ufficiali.
Ma vogliamo parlare di quanto l’Italia discrimini le donne nel management? La percentuale di donne dirigenti nel settore privato nel 2011 era soltanto dell’11,9 per cento, la più bassa fra le grandi economie europee. La Germania ha il 29,3 per cento di manager donna, la Gran Bretagna il 34,9 e la Francia ben il 37,4 per cento.
Un programma serio deve includere non solo incentivi fiscali per l’occupazione femminile, a cominciare da una detassazione selettiva, ma anche un cambio di mentalità. Ci vorrebbe una rivoluzione culturale tra gli uomini che hanno il potere nell’industria e nella finanza in Italia, e non solo nella politica.
Ma la rivoluzione per le donne sarebbe già avere la disponibilità gratuita o quasi di asili nido in tutto il Paese. Un programma di vasta copertura costerebbe altri 3 miliardi di euro all’anno, portando la spesa attuale a 4,5 miliardi. È ragionevole che si trovino questi soldi all’interno di tagli fatti altrove, tra gli sprechi della spesa pubblica. È fattibile, basta volerlo.
Non possiamo più permetterci di sprecare il potenziale lavorativo delle donne. Come spiega Yoram Gutgeld, «noi abbiamo ogni anno 80.000 madri che lasciano il mercato del lavoro quando sono in maternità, quindi questa è una grande ricchezza che perdiamo, noi abbiamo una partecipazione nel mercato femminile che è 15 punti sotto la media europea, abbiamo un gap di 2 milioni di posti di lavoro».
In Italia, il 28 per cento dei bambini sotto i tre anni usufruisce di un servizio di assistenza all’infanzia, una percentuale non lontana dalla media europea del 30 per cento ma ben sotto i Paesi del Nord Europa come la Danimarca, dove i posti nelle strutture per l’infanzia arrivano a coprire il 74 per cento dei bimbi, o la Svezia e l’Olanda, che vantano un tasso superiore al 50. Molto meglio di noi fanno la Francia, con il 44 per cento, e il Regno Unito, con il 35.
E guardando solo agli asili nido comunali o finanziati dai Comuni, solo l’11,8 per cento dei bimbi tra zero e due anni riesce a trovare un posto.
In Italia la copertura è bassa, ma non è soltanto questo. Le disparità territoriali sono enormi, inaccettabili. Per esempio, i bambini che usufruiscono di asili nido comunali o finanziati dai Comuni variano dal 3,5 per cento del Sud al 17,1 del Nordest, con squilibri enormi tra regione e regione: 2,5 per cento di copertura in Calabria a fronte di un 26,5 in Emilia-Romagna.
(…) Quindi, riassumendo:
1. Bisogna incoraggiare l’occupazione femminile con una politica attiva che crei incentivi fiscali per chi assume a tempo pieno e relativa detassazione di lavori part-time o flessibili per le mamme che scelgono questa strada.
2. Bisogna applicare quelle regole che incoraggino una quota maggiore di donne manager nei settori privato e pubblico.
3. Bisogna stanziare 3 miliardi in più nella legge di Stabilità per una copertura diffusa degli asili nido.
Per spazzare via dubbi o eventuali fraintendimenti, vorrei essere chiarissimo sul perché questo è un punto di grande importanza nella ricetta economica: gli incentivi per l’occupazione femminile non sono un optional, ma una condizione fondamentale per aiutare la crescita e l’occupazione nell’Italia da rifare. Queste iniziative non sono soltanto per le donne ma per tutti gli italiani perché genererebbero nuovi posti di lavoro, nuovi redditi, nuovi gettiti fiscali e nuovi consumi.