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L’orizzonte del leader di Forza Italia: «Lascerò solo dopo aver vinto ancora»

Il Corriere della Sera ha pubblicato mercoledì un’anticipazione tratta dall’ultimo capitolo del mio nuovo libro, uscito oggi per Rizzoli: «My way: Berlusconi si racconta a Friedman».

Silvio Berlusconi ha accettato di ripercorrere la sua vita e il suo lungo percorso in politica con Alan Friedman, editorialista del «Corriere» e autore di «Ammazziamo il Gattopardo», nella biografia «My way, Berlusconi si racconta a Friedman» che esce domani (oggi per chi legge, ndr) per Rizzoli. In questo brano che anticipiamo — tratto dall’ultimo capitolo del libro — l’ex presidente del Consiglio parla, nell’estate appena trascorsa, del suo futuro politico.

8 ottobre 2015 – In una fosca mattina dell’estate 2015, un lunedì, Berlusconi è a casa sua, ad Arcore. Ha un’aria romantica, mentre con alcuni amici riflette sulla sua vita nella stanza accanto alla cappella di famiglia. Magari è proprio la vicinanza della cappella, dove su una mensola sono allineate le urne con le ceneri del padre, della madre e della sorella, o magari sta pensando al solito pranzo di famiglia del lunedì, a cui sta per partecipare. La figlia Marina già lo aspetta nel salotto con Fedele Confalonieri e un trio di esperti manager di Fininvest che si occupano del contratto per la cessione delle quote del Milan. Ma Berlusconi si fa attendere: sta parlando del suo futuro, e ha un’altra cosa da confidare: «Ho detto ai miei figli che quando me ne sarò andato, se credono, potranno vendere tutto. Potranno vendere le nostre società, le nostre case e tutto quello che vorranno. Ma due cose non dovranno vendere. Una è la maggioranza nel Milan e l’altra è questa casa, la casa di Arcore».

Fa una pausa. «Sapete,» dice «ho quasi ottant’anni e comincio a sentire l’età.» Già da maggio 2015 Berlusconi mandava segnali contraddittori, nel corso di una campagna elettorale, quella per le regionali, che alla fine si era rivelata un ragionevole successo. Il suo protégé Giovanni Toti, già direttore dei telegiornali di Italia 1 e Rete 4, era stato eletto governatore in Liguria, e Forza Italia faceva parte della coalizione di centrodestra che aveva vinto in Veneto. In entrambi i casi, però, la vittoria era stata ottenuta grazie all’alleanza con la Lega Nord, che ormai aveva un peso elettorale superiore a quello di Forza Italia sulla scena nazionale.

Il fatto è che Berlusconi, come ripeteva senza sosta ai suoi amici, era riuscito a sollevare le sorti di Forza Italia grazie ai suoi interventi pubblici e alla sua partecipazione attiva alla campagna elettorale. Tuttavia c’erano stati alcuni errori, come quando sembrava annunciare il suo ritiro dalla politica attiva.

«Io sono fuori dalla politica» aveva detto a Saronno. «Sono solo una persona che ha un grande senso di responsabilità verso la propria nazione.» Gli avversari avevano preso la palla al balzo per dimostrare che la sua carriera politica era finita. Di sicuro ha una exit strategy, dicevano, e sarebbe stato in politica solo finché fosse stato necessario per proteggere le proprie imprese.

Berlusconi si era affrettato a spiegare che ciò che intendeva davvero era che era stato cacciato dal Senato e dichiarato ineleggibile, e dunque cercava di reinventarsi nel ruolo di padre nobile di un nuovo movimento politico, il «Partito repubblicano» d’Italia di cui parlava in continuazione. A quasi ottant’anni, ineleggibile fino al 2019, Berlusconi aveva un progetto di riserva, o quanto meno una visione di quella che doveva essere la sua eredità politica.

La definiva una «crociata»: voleva persuadere i partitini e le varie anime del centrodestra a tornare insieme, o almeno a collaborare, per creare un’alleanza in grado di conquistare la maggioranza alle elezioni del 2018. Tuttavia, il messaggio non era chiarissimo. Si ritirava o era ancora in campo? Per spiegarsi aveva scelto ancora una volta una metafora calcistica: sarebbe stato come l’allenatore «a bordo campo», a dare consigli per il futuro, ma non sarebbe stato lui il centravanti. Alla domanda su chi potesse essere quel centravanti-leader, Berlusconi aveva risposto che non lo sapeva. Non c’era un successore naturale, o così pareva.

In un modo o nell’altro, Berlusconi si stava stancando del gioco della politica. Anzi agli amici incontrati nell’estate 2015 avrebbe confidato che detestava quello che chiama «il teatrino della politica». «La politica non mi è mai piaciuta. Io non sono un professionista della politica. Io sono un imprenditore» ripeteva in continuazione.

Se la prendeva con i «politici a tempo pieno che sono solo dei parassiti e che mi hanno usato» e si lamentava della loro mancanza di lealtà. Scrollava le spalle davanti al fiume in piena delle defezioni da Forza Italia, vecchi amici e alleati fedeli che lo abbandonavano e riducevano sempre più i numeri del suo partito in Parlamento. L’unica cosa che ormai poteva sperare era ritirarsi dignitosamente da grande vecchio o almeno come l’uomo in grado di offrire l’investitura al futuro leader del centrodestra italiano. Ma non era pronto a gettare la spugna.

La verità, per coloro che hanno vissuto con lui l’estate 2015, è che Berlusconi non vuole lasciare il palco, e soprattutto se ne vuole andare alle sue condizioni e con i suoi tempi. Per tutta la vita, fosse un bambino sfollato da Milano per sfuggire ai bombardamenti alleati o uno spietato e brillante imprenditore abituato a non fare prigionieri, Berlusconi è sempre stato deciso a vincere, e a vincere alla grande. Così non era poi tanto sorprendente se, alla domanda diretta di un ospite che gli chiedeva se pensasse di ritirarsi dalla scena, lui rimanesse in silenzio, ma intanto scrivesse automaticamente alcune parole sul bloc-notes che tiene sempre davanti a sé: Me ne andrò dopo aver vinto un’altra volta.

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