L'ICONOCLASTA

Perché l’euro non è la causa di tutti i mali

C’è una verità sconveniente legata alla nascita della moneta unica, l’euro, l’oggetto di così tante polemiche durante questa primavera del 2014, stagione elettorale: l’euro fu costruito male.

Mancando un accordo politico multilaterale all’epoca, l’euro nacque con una centralizzazione della politica monetaria nelle mani della Bce ma senza la stessa tassativa collaborazione sulla politica fiscale. Per questo difetto di progettazione l’euro era destinato a innescare, durante periodi di crisi finanziaria o economica, conflitti tra i diversi Stati membri. Alla fine un singolo tasso di interesse non funziona sempre per diverse economie con diversi cicli e variegate politiche economiche e fiscali. Ci vorrebbe un coordinamento macroeconomico e politico. Servirebbero degli Stati Uniti di Europa che oggi non ci sono. Invece oggi il coordinamento consiste soprattutto in una serie di rigidi e spesso datati vincoli europei come il famoso rapporto debito/ Pil o la fatidica soglia del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil.

Oggi, i più virtuosi fra gli Stati membri godono di un tasso di interesse bassissimo per i titoli del debito sovrano, mentre i più indebitati, che vivono da anni una stagnazione economica a causa di riforme mancate, pagano un premio di interesse: lo spread.

Il fatto rimane, come ci ricorda Luigi Zingales nel suo nuovo saggio sull’euro e sull’Europa (Europa o no, Rizzoli, pagine 206, euro 18), che non è a causa dell’euro se l’Italia si trova in crisi. In Italia, come ho scritto di recente, siamo da decenni vittime del malgoverno, di sprechi nella spesa pubblica e di una burocrazia gonfiata, del clientelismo, del gattopardismo, e cioè di una feroce resistenza all’idea di riforma e a cambiamenti veri e importanti: del mercato del lavoro, del Fisco, della giustizia, della Pubblica amministrazione e delle istituzioni.

La moneta unica, argomenta anche Zingales, non è causa dei problemi. «La crisi strutturale in cui l’Italia è precipitata negli ultimi vent’anni — scrive Zingales — non è colpa dell’euro né può essere risolta con la nostra uscita dall’euro… Nella mia opinione i costi di uscire dall’euro oggi eccedono i benefici. Vale la pena di provare ancora a riformare l’Unione per rendere l’euro sostenibile». È confortante che Zingales concluda che sia meglio rinegoziare alcuni punti chiave nei meccanismi dell’Unione Europea invece di pagare un costo molto più pesante uscendo dell’euro. Zingales sostiene che il problema più grave per l’Italia oggi si chiama produttività. «La mancata crescita della produttività è il vero male dell’economia italiana», scrive. Questo problema però non c’entra con l’euro. Oggi in Europa ci sono alcuni Stati virtuosi con tassi di disoccupazione ridotti (la Germania, l’Olanda, l’Austria, la Scandinavia, il Regno Unito) che hanno approvato e introdotto diversi anni fa le riforme strutturali che portano maggiore produttività e competitività. Invece l’Italia è rimasta indietro. Il Belpaese non ha affrontato le riforme dieci anni fa, come la Germania, e quindi ora paga un prezzo ancora salato.

Oggi, i vincoli europei sembrano a tanti il vero problema. E in verità tra i difetti nella progettazione c’è anche la mancanza di sufficiente flessibilità per i Paesi come l’Italia che soffrono periodi estesi di crisi, di stagnazione economica e mancanza di domanda interna, di pressione fiscale pesante e debito pubblico elevatissimo.

A me sembra che il vincolo del 3 per cento sia una idea datata, oldfashioned, frutto di un trattato firmato un quarto di secolo fa, a Maastricht, in un’altra Europa. Durante periodi recessivi il parametro di Maastricht si rivela una camicia di forza. Dovrebbe essere rinegoziato. Il Fiscal compact va nella direzione giusta perché predica l’abbattimento del debito nei Paesi più indebitati. Il debito pubblico è il tema che nessun politico vuole affrontare ma è importante. Sui ritmi della riduzione del debito il Fiscal compact è troppo rigido. Vanno allungati i termini semmai per trovare un po’ di respiro. Ma senza un notevole tasso di crescita non è facile ridurre il debito.

Per qualcuno l’idea di rinegoziare il Fiscal compact sembra la soluzione, a mio avviso lo è a metà. L’altra metà consiste nell’avviare le riforme strutturali che alcuni Paesi hanno già realizzato un decennio fa, e non solo nel rimuovere i vincoli alle assunzioni ma nel creare le precondizioni per la crescita, compreso un miglioramento della produttività.

Nel pensiero di Zingales, come nella mente di tanti italiani che vogliono vedere rinascere il loro Paese dopo anni di crisi c’è anche l’idea che non basta la singola riforma. Bisogna operare su diversi livelli, in contemporanea. Bisogna avviare una serie di riforme di vasta portata per l’economia italiana, mentre si mira anche alle riforme all’interno dell’Unione Europea. Ci vorranno entrambe per rimettere l’Italia sul binario della crescita e dell’occupazione.

Pubblicato sul Corriere della Sera del 26 aprile 2014

(photo credit: Beppe Giacobbe)

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