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THE TELEGRAPH: Il Piano Juncker non convince tutti

Pubblichiamo il commento di Ambrose Evans-Pritchard sul piano Juncker, presentato oggi dal neo presidente della Commissione Europea.

La Commissione europea ha lanciato un “New Deal” da 315 miliardi per traghettare l’Europa fuori dalla crisi economica nei prossimi tre anni, ma dalle sue tasche uscirà pochissimo denaro fresco, affidandosi invece a strumenti d’ingegneria finanziaria di tipo subprime.

Ci vorranno mesi per vagliare la lista di investimenti e progetti di infrastrutture, e lo stimolo non raggiungerà risultati significativi prima del 2016. Lo schema è già stato travolto da una valanga di critiche. Il piano si basa su un sistema di leve finanziarie che moltiplica per 15 il valore dei fondi stanziati, lasciando i rischi più seri ai contribuenti europei mentre gli investitori privati risultano protetti dalle perdite.

Jean-Claude Juncker, il nuovo e già sotto attacco presidente della Commissione, ha fatto del piano la colonna portante di questa “last chance” per riconciliare i cittadini con il progetto europeo, ma che rischia di diventare piuttosto l’emblema della paralisi e del fallimento.

«Il denaro è “mangime per polli” e non farà nulla per far ripartire la crescita», spiega il professor Charles Wyplosz, dell’università di Ginevra. «È incredibile che stiano facendo questo invece di realizzare una vera espansione fiscale. Il settore privato non farà che dare i governi in pasto ai cleaner».

«Fingono di fare qualcosa mentre invece è ancora in corso l’austerity. Ci metterà troppo tempo per funzionare e ci sarà una grande battaglia sui progetti, perché ogni paese cerca di avere la sua fetta di torta».

Il “Collegio” di funzionari europei della Commissione ha concordato il piano martedì a Strasburgo. Sarà conosciuto come il Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (EFSI). Maggiori dettagli non saranno diffusi prima di mercoledì (oggi, ndr) ma i funzionari confidano in privato che il pacchetto si baserà su 21 miliardi di fondi europei che in teoria, grazie all’effetto leva, diventeranno, in una chimica complessa, 300 miliardi di venture capital e fondi privati.

Questi soldi, se lo schema funzionasse come pianificato, saranno usati per costruire strade, rinnovare le infrastrutture ferroviarie, migliorare le reti energetiche e potenziare le connessioni internet ad alta velocità. Richiede l’assenso dei leader europei e, il prossimo anno, la promulgazione di leggi. Come molti degli stimoli macroeconomici forniti dalle istituzioni europee, si configura come una speranza piuttosto che come un solido impegno.

I progetti sono iniziative a “rischio più elevato” che sono state respinte dal Fondo Europeo per gli Investimenti, geloso del suo rating AAA. Questo pone direttamente sul tavolo il tema dei rischi per i contribuenti. I governi hanno già inviato a Bruxelles una lista di 1800 possibili progetti. Questi saranno vagliati da un panel di esperti indipendenti. Non ci saranno, in linea di principio, quote nazionali.

I fondi europei arriveranno in gran parte dalla pancia della direzione di ricerca della Commissione e da altre parti dell’attuale bilancio dell’Ue, con 5 miliardi di garanzia dalla Banca Europea degli Investimenti (BEI). Werner Hoyer, presidente della BEI, ha cercato di raffreddare quelle che ha definito «esuberanti» aspettative.

Gli organi dell’Ue subiranno la “prima perdita” se qualsiasi progetto dovesse fallire; un dispositivo troppo simile alla finanza strutturata usata al culmine del periodo che ha preceduto il crollo di Lehman Brothers, quando Dublino era il centro di quei “veicoli speciali d’investimento” che mascheravano la concentrazione dei rischi. I piani comportano un sussidio de facto, ma di tipo controverso. I critici lo chiamano «perdita socializzata e profitto privato».

Charles Grant, direttore dell’europeista Centro per le Riforme Europee, ha detto che gli sforzi coraggiosi di Juncker di fare qualcosa di sostanzioso sono stati mandati all’aria dai suoi potenti oppositori. «È un altro triste capitolo nella storia del malgoverno in Europa – ha commentato Grant – I tedeschi non credono nello schema e non vogliono fornire denaro a questo scopo. Semplicemente, non capiscono quanto le cose si sono messe male in Europa». Anche il Regno Unito si è opposto a un programma di spesa su vasta scala.

Markus Ferber, il portavoce finanziario dell’Unione Cristiano-Sociale in Baviera (CSU), ha dichiarato che, fondamentalmente, il piano è stato mal concepito: «L’idea di una responsabilità sulle perdite implica l’emissione di nuovo debito da parte degli stati membri dell’UE».

Il ministro francese dell’economia, Emmanuel Macron, ha spiegato che lo schema richiede «almeno tra i 60 e gli 80 miliardi di denaro fresco» per fare da traino. Parigi aveva proposto di usare il Fondo salva-Stati allo scopo di raccogliere finanze per un blitz di spesa molto più importante. Ma quest’idea è stata bloccata da Berlino, sempre sospettosa che si voglia far entrare dalla finestra gli Eurobond o un’unione fiscale.

Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, ha supplicato le autorità fiscali dell’UE affinché venisse lanciato un pacchetto di misure per la ripresa economica, avvertendo che lo stimolo monetario non è in grado di fare tutto il lavoro da solo. È tutto fuorché chiaro se questo piano, questo Fondo Europeo per gli Investimenti, avrà effetti macroeconomici.

Juncker ha avuto le mani legate fin dall’inizio. La Germania, il Regno Unito e altri paesi del Nord hanno messo un tetto alla spesa, intorno ai 140 miliardi di euro fino al 2020, forzando Bruxelles a fare ricorso alla “finanza ombra”.

È stato attaccato dalla destra per aver fatto troppo, e dalla sinistra per aver fatto troppo poco. Il rischio è che il Fondo Europeo per gli Investimenti degeneri in un fiasco, danneggiando ulteriormente la sua operatività mentre cerca di superare lo scandalo “Luxleaks”, che collega il Lussemburgo con schemi di elusione fiscale su larga scala quando era primo ministro. Le accuse possono anche essere ingiuste – considerando che i paesi europei impiegano simili schemi per attirare le aziende – ma hanno avvelenato il suo rapporto con il blocco socialista europeo.

L’eurozona è in depressione economica da 6 anni e registra una contrazione più profonda rispetto all’analogo periodo che va dal 1929 al 1935. Juncker sa che il fallimento nell’avviare una ripresa duratura metterebbe a rischio il suo destino. «O riusciamo a ridurre significativamente la disoccupazione – ha detto – o falliamo».

(Traduzione di Luna De Bartolo)

VIA/ The Telegraph

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