L'ICONOCLASTA

Quelle troppe verità oscurate su Epstein. Ma Trump vacilla di più sull’economia

Da giorni, a Washington, rimbalza la domanda come un’eco ossessiva: lo scandalo Epstein, che ha nuovamente avvolto la Casa Bianca, cambierà davvero il modo in cui gli americani percepiscono il loro presidente? 

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Farà scendere ancora di più i suoi già modesti consensi? Aiuterà a spianare la strada ai democratici per riconquistare la Camera alle elezioni di metà mandato?

Le risposte sembrano essere: sì, ma solo in parte; sì — e sì. Ma meno di quanto molti immaginino.

Lo scandalo Epstein è ripugnante. L’ultima diffusione di documenti e fotografie è inquietante, a tratti grottesca. Una minoranza tutt’altro che trascurabile dell’elettorato Maga disapprova apertamente la decisione di Donald Trump di non rendere pubblici tutti i dossier Epstein. Sommando questi elettori a democratici e indipendenti, si capisce perché l’indice di gradimento complessivo del presidente sia in caduta libera: 39 % nell’ultimo sondaggio Cnn. Solo il 23% degli americani approva il modo in cui Trump sta gestendo l’affaire Epstein. Ma questa bocciatura va ben oltre lo scandalo. Una netta maggioranza si dice insoddisfatta anche delle sue politiche su immigrazione, politica estera, commercio e dazi. Soprattutto in materia economica. Epstein non è un incidente isolato: è parte di una tendenza più ampia. Almeno metà degli americani ha emesso il proprio verdetto su Donald Trump anni fa. Ne è disgustata. Lo considera un traditore, un delinquente o un sociopatico. La pubblicazione di nuovo materiale che lega Trump — socialmente, fotograficamente e in modo imbarazzante — al pedofilo condannato Jeffrey Epstein non cambia questa percezione. La rafforza. L’America ha superato da tempo il punto in cui uno scandalo riesce a rimodellare l’opinione pubblica. Le opinioni su Trump non sono più elastiche: sono fossilizzate.

Colpisce però un altro aspetto. Subito dopo la pubblicazione parziale dei dossier, venerdì sera, membri del Congresso — democratici, ma anche alcuni repubblicani — hanno iniziato a criticare apertamente il Dipartimento di Giustizia per la gestione del materiale. Non era semplice tattica politica. Hanno parlato di un processo che assomiglia più a una rappresentazione teatrale della trasparenza che a una vera apertura.

Secondo le stime più accreditate a Washington, l’amministrazione ha reso pubblico non più del 10% dei file Epstein. Il nome di Trump compare di rado, mentre 119 pagine sono completamente oscurate, con cancellature così fitte da sembrare colate di inchiostro nero.

Lo scorso febbraio, la procuratrice generale Pam Bondi aveva dichiarato chiuse tutte le indagini su Epstein. Poi, improvvisamente, Trump ha ordinato «nuove indagini», concentrate — non casualmente — su Bill Clinton e su altri democratici. Il Dipartimento di Giustizia ha eseguito. Oggi, questa brusca inversione di rotta viene usata come giustificazione per la divulgazione limitatissima dei documenti: non si può pubblicare altro, sostengono, a causa di «indagini penali in corso». Indagini che riguardano, guarda caso, la lista dei bersagli politici del presidente.

Una parte del mondo Maga resta ipnotizzata dalla propaganda trumpiana e accetta le proclamazioni di innocenza del presidente, apprezzando gli attacchi a Bill Clinton o a Larry Summers. Ma un’altra parte, più silenziosa, appare sinceramente turbata dall’idea che il proprio leader possa aver intrattenuto per anni un rapporto di grande amicizia con un trafficante sessuale e pedofilo.

Eppure, tutto questo difficilmente modificherà in modo decisivo l’aritmetica elettorale del 2026. Forse un po’, ma non tanto.

Il motivo per cui i Dems conquisteranno la Camera tra undici mesi è molto più banale — e molto più pericoloso per Trump: il costo della vita. L’inflazione negli Stati Uniti non è un concetto astratto; si misura ogni settimana alla cassa del supermercato. Le famiglie faticano a permettersi la carne macinata per gli hamburger che i figli si aspettano. Uova, caffè e banane costano sempre di più, sommando frustrazione a frustrazione nella vita quotidiana. Nel frattempo, la disoccupazione è salita al 4,6 per cento, il livello più alto dai tempi della pandemia.

Più dannosa dei file Epstein è la crescente convinzione che siano le stesse politiche economiche di Trump ad alimentare questi rincari. Dallo scorso aprile, dal cosiddetto “Liberation Day” in cui il presidente ha annunciato dazi generalizzati contro i partner commerciali degli Stati Uniti, gli economisti avevano avvertito che quelle tasse sulle importazioni avrebbero spinto i prezzi verso l’alto e raffreddato il mercato del lavoro. I dati hanno confermato quelle previsioni.

In questo contesto, Trump ha pronunciato la settimana scorsa un discorso televisivo dallo Studio Ovale: 18 minuti confusi, affrettati, a tratti nervosi. Doveva rassicurare il Paese sull’economia. Ha finito per attaccare Joe Biden tredici volte e sostenere che i prezzi al supermercato stanno «crollando». Un’affermazione smentita dall’esperienza quotidiana di milioni di americani.

Le elezioni di metà mandato non sono referendum sugli scandali. Sono referendum sul portafoglio delle famiglie. L’economia conta più di tutto. Come recitava lo slogan geniale dello staff di Bill Clinton nel 1992: «It’s the economy, stupid».

Gli elettori non hanno bisogno di sondaggi per capire che qualcosa non va. Hanno gli scontrini. Li guardano ogni settimana, in corsie dove i prezzi non hanno più senso e gli stipendi non arrivano più a fine mese. La classe media e medio-bassa soffre. Per questo i democratici partono favoriti per riconquistare la Camera, mentre il Senato potrebbe restare repubblicano. Ma tutto dipenderà dall’economia.

Il problema più profondo che Trump affronta, e per la prima volta da quando si è insediato, oggi è la sua credibilità. Troppi americani non credono più a ciò che la Casa Bianca racconta sull’economia, perché non coincide con la loro realtà. Quando un presidente perde questa fiducia elementare, i guai politici non sono mai lontani.

Lo scandalo Epstein potrà macchiare ulteriormente una presidenza già segnata dagli scandali. Ma sono i prezzi di cibo, affitti e carburante a minacciare davvero Trump.

In politica americana, gli scandali irrigidiscono le opinioni; l’economia decide le elezioni. E come dice un vecchio adagio, si può ingannare qualcuno per un po’ — ma non tutti, per sempre.

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