06 marzo 2014 – Le aspettative dei mercati finanziari, degli investitori internazionali, della Commissione europea e del Fondo monetario internazionale sono grandi. Le promesse di Matteo Renzi di avviare rapidamente una serie di riforme di vasta portata hanno fatto sì che la posta in gioco sia alta.
La posta in gioco riguarda la credibilità del Paese, la pagella delle agenzie di rating (quelle che misurano l’affidabilità di nazioni e aziende nel restituire i debiti), la capacità di attirare investitori anche industriali, e naturalmente gli interessi che paghiamo e pagheremo sui titoli di Stato.
La dimostrazione inequivocabile delle aspettative internazionali e dell’urgenza di passare dalle promesse ai fatti è stata ieri la discesa dello spread, tra i titoli di Stato decennali italiani e quelli tedeschi, sotto i 180 punti. Ciò è avvenuto nello stesso momento in cui la Commissione europea dichiarava che il debito elevato e la bassa competitività dell’Italia rendevano «urgenti» interventi decisi. Oramai un’azione per riformare la burocrazia, il fisco, il mercato del lavoro e l’abbattimento del debito non è più un optional. E si tratta di interventi irrinunciabili se il Paese vuole rimettersi sul binario della crescita e creare nuovi posti di lavoro.
Renzi ha annunciato che la riforma sul Jobs Act è in dirittura d’arrivo, e sarà presentata la settimana prossima. Bene. Ma cosa ci sarà dentro questa legge? A mio avviso non basta stabilire che i sussidi di disoccupazione saranno più equi e uniformi. Questo ci vuole, così come sono necessari l’abolizione della cassa integrazione in deroga e la sua trasformazione in sussidi di disoccupazione o assistenza sociale. Bisogna anche accettare che il contratto a tempo indeterminato oggi è un anacronismo, tanto che solo nel 17 per cento delle nuove assunzioni si usa questo formula. Ci vorrà un contratto a protezione progressiva, ma nei primi tre anni occorreranno una detassazione parziale o totale sui nuovi assunti e un periodo di prova di tre anni senza articolo 18 (salvo in casi di mobbing o discriminazione). Bisogna fare in modo che nei primi trentasei mesi il rapporto possa sciogliersi semplicemente con una piccola indennità di licenziamento, chiara e prevedibile. E’ urgente avviare un ripensamento dei centri di impiego, che oggi piazzano a malapena il 3 per cento dei disoccupati, contro il 13 per cento in Germania, dove le riforme Schröder-Hartz di dieci anni fa hanno trasformato il vecchio ufficio dicollocamento in un moderno Job Center ben più efficace nell’aiutare i disoccupati. E se vogliamo riqualificare i senza lavoro, esodati compresi, bisogna iniziare riqualificando le diecimila persone che oggi lavorano nei centri di impiego in Italia. Non basta riformare il mercato del lavoro; vanno introdotte nuove politiche attive per chi non ha un lavoro.
Il taglio dell’Irap per le imprese e dell’Irpef per i lavoratori sono misure critiche: nella speranza del governo la copertura nel primo anno che deriva da tagli nella spesa pubblica e non solo dovrebbe liberare risorse per una decina di miliardi. Bisogna puntare a un taglio del cuneo fiscale complessivo di 30 miliardi nell’arco di tre anni.
Anche la riforma della Pubblica amministrazione, forse una sfida ancora più difficile, deve passare dagli slogan ai fatti, introducendo il principio della meritocrazia vera, in cui chi sbaglia paga e chi è più efficiente va premiato. Ci vorranno premi e sanzioni, oltre che una migliore formazione del personale. La valutazione è critica. La trasparenza aiuta. E forse, ancora più importante, ci vorrà una mobilità seria.
Si devono affrontare le questioni parallele degli sprechi nella spesa pubblica e della riforma del Titolo V, in modo che si tolgano tante delle competenze finanziarie alle Regioni, in materia di sanità, turismo e agricoltura. Perché? Così si potrebbero non solo applicare i costi standard e benchmarking per gli appalti ma anche risparmiare fino a 10 miliardi senza togliere i servizi della sanità universale.
Infine, c’è il debito. È possibile ridurlo di 400 miliardi nei prossimi otto anni, sfruttando il patrimonio pubblico e le partecipazioni statali senza svenderli. A mio avviso questo andrebbe fatto creando un contenitore verso il quale affluiscano quote di società come Finmeccanica, Enel, Eni, Poste e Ferrovie, ma anche beni immobiliari come le caserme dismesse e altri beni pubblici.
Questo ente potrebbe emettere obbligazioni, con un ritmo calibrato di circa 50 miliardi all’anno, per un periodo di otto anni. Mentre via via i beni vengono trasferiti al nuovo ente, questo userà il patrimonio pubblico come collaterale emettendo obbligazioni di lunga durata (almeno 10 anni) da collocare presso i privati. I ricavi delle obbligazioni sottoscritte verranno versati al conto capitale dello Stato, riducendo il debito.
Con questo processo non si svenderebbe il patrimonio pubblico in un mercato troppo debole per assorbirlo, perché il nuovo ente avrebbe fino a dieci anni dal momento in cui verrebbero collocate le obbligazioni per vendere questi cespiti. Così ci sarebbe respiro e il tempo tecnico necessario per cedere il patrimonio in condizioni più favorevoli. Chi possiede le obbligazioni del nuovo ente potrebbe poi contare su una cedola bassa ma ben garantita da una fetta del patrimonio (ex) pubblico, quindi sicura. Si potrebbe anche dare un buon ritorno agli investitori dando non solo la cedola ma anche la possibilità di incassare un dividendo alla fine di ogni anno, se i ricavi delle vendite dei beni in quell’anno superassero il valore di base al quale sono stati trasferiti dallo Stato al nuovo ente. Cosa probabile, visto che le valutazioni di questi beni sono state fatte a prezzi stracciati negli ultimi due o tre anni.
Oramai mezz’Europa ci guarda. I prossimi 60 o 90 giorni saranno critici. Non bastano i complimenti del Fondo monetario sulle promesse. La posta in gioco è alta. Bisogna agire.
(pubblicato sul Corriere della Sera di giovedì 6 marzo)
(photo credit: Beppe Giacobbe)