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Silvio’s Way – Berlusconi si racconta. In edicola oggi sulla Gazzetta dello Sport un’anticipazione dal mio libro «My way: Berlusconi si racconta a Friedman»

La Gazzetta dello Sport, con due pagine in apertura del giornale, pubblica stamattina un’anticipazione del mio nuovo libro, in uscita domani: «My way: Berlusconi si racconta a Friedman». Il quotidiano sportivo si concentra, naturalmente, sul calcio, riportando ampi stralci dal quarto capitolo, dove Silvio Berlusconi mi racconta tutti i segreti di 29 anni alla testa del Milan. Ecco l’articolo, oggi in edicola.

7 ottobre 2015 – “Me ne andrò solo quando avrò vinto un’altra volta”: parola di Silvio Berlusconi. Di questi tempi, col Milan in crisi nera, il titolo del capitolo che conclude “My Way”, biografia-affresco scritta da Alan Friedman in libreria da domani per Rizzoli, non è una promessa da poco. Il Cavaliere si riferisce sia alla politica che al calcio, la metafora della vita che preferisce. E infatti confida all’intervistatore che da mesi lo interroga sulla sua vicenda pubblica e privata : “Ho detto ai miei figli che quando me ne sarò andato, se credono, potranno vendere tutto tranne due cose: la maggioranza del Milan e la casa di Arcore”. Nelle 400 pagine di “My Way” – pur colme di aneddoti e retroscena inediti sull’economia e sulla politica – questa rivelazione semplice, familiare, rappresenta uno dei punti di sintesi più forti e sentiti.


«Ho mai dettato una formazione? No. Ne ho suggerito una? Certo. Molto spesso. Discuto sempre con i miei allenatori, parliamo della formazione e di ciascun calciatore prima di ogni partita. Certe volte non sono d’accordo con l’allenatore, e in questi casi vince sempre lui. Così non ho mai abusato della mia posizione di proprietario e presidente del club. Non ho mai tentato di essere superiore al coach. Dopo tutto, è lui il responsabile dei risultati della squadra. Con Sacchi, per esempio, abbiamo inventato la formula di un Milan che avrebbe sempre comandato il gioco, abbiamo inventato una squadra che si sarebbe sempre divertita a giocare, che avrebbe rispettato gli avversari e per questo sarebbe stata applaudita dai suoi tifosi. Ecco, credo che adesso questo concetto sia ormai un elemento fondamentale del Dna del Milan.»

Galliani, che ha osservato i rapporti tra Berlusconi e un’infinità di allenatori nel corso di quasi trent’anni, sorride con l’aria di uno che se ne intende. «Magari non detta la formazione» dice «ma di sicuro ama parlare di calcio, degli aspetti tecnici e tattici del gioco. Gli piace parlare con gli allenatori, un po’ come l’editore di un giornale ama parlare con il direttore. L’editore sceglie il direttore e il direttore è libero di decidere la linea editoriale. Ma l’editore può cambiare il direttore, se lo desidera. Lo stesso accade tra il proprietario di un club e l’allenatore.»

Berlusconi adesso guarda fisso in lontananza. Il Grande Incantatore all’improvviso è diventato nostalgico.
«Il vero significato del Milan per me è che mi ricorda l’infanzia, mi ricorda mio padre. Ne parlavamo quasi ogni sera, quando lui tornava dal lavoro. Quando mi chiedeva della scuola e dei compiti, io cercavo subito di indirizzare la conversazione sul Milan. A quell’epoca non era un grande club, non vinceva mai niente. Ma in qualche modo mi proiettavo in quella squadra. Mi identificavo con i singoli calciatori. Fantasticavo. Così quando nel 1986 mi proposero di comprarla,
pensai subito a mio padre, e mi decisi. Comprai il Milan anche per questo, benché allora fosse un club mediocre, che veniva da due retrocessioni e da una lunga serie di risultati negativi.»

Il momento cruciale fu alla fine del 1985, tra Natale e Capodanno. «Eravamo insieme nella casa di Berlusconi a St. Moritz» racconta Galliani. «Era la casa appartenuta allo Scià di Persia, e fu lì che Berlusconi prese la decisione. Io glielo sconsigliavo, perché sapevo quali spese comporta la proprietà di un club. Così gli dissi che era una bellissima idea ma gli sarebbe costata un mare di soldi. Berlusconi non mi rispose. Prendemmo il jet privato da St. Moritz a Milano, solo noi tre, io, lui e Confalonieri, e lui restò in silenzio tutto il tempo. Poi, mentre stavamo per atterrare all’aeroporto di Linate, dopo quaranta o cinquanta minuti di volo durante i quali non aveva aperto bocca, Berlusconi si mise a parlare. Per tutto il volo aveva ripensato al mio consiglio di stare molto attento, o magari all’entusiasmo del suo amico di gioventù Fedele Confalonieri, che a quel punto era a favore dell’acquisto, e proprio mentre stavamo atterrando, quando l’aereo ancora stava rullando sulla pista, Berlusconi ci annunciò la sua decisione: “Andiamo a prendere il Milan”.»

Berlusconi mise subito all’opera i suoi uomini per concludere la transazione. La firma arrivò il 20 febbraio 1986. Il magnate dell’edilizia divenuto padrone di un impero televisivo era il proprietario dell’Associazione Calcio Milan. Come se non bastasse, quello stesso giorno, nel tardo pomeriggio, Berlusconi, Galliani e Confalonieri salirono sul jet privato e volarono da Milano a Parigi, per partecipare al lancio della prima televisione privata commerciale francese, La Cinq.
«È un giorno che non dimenticherò mai» dice Galliani. «Andammo a Parigi per la prima trasmissione del nostro nuovo canale francese. Era il primo network commerciale in Francia. Un giorno straordinario che cominciò con l’acquisto del Milan e finì con Berlusconi alla conquista della Francia. Quella sera festeggiammo al Jules Verne, il ristorante sulla Torre Eiffel, con molto champagne e un Bordeaux Mouton Rothschild veramente indimenticabile.»

Berlusconi adesso era il proprietario di una squadra. Quello che gli mancava era un debutto spettacolare nel mondo del calcio.
«Io ero un uomo di spettacolo, di televisione» dice Berlusconi. «Quindi pensai che ci volesse qualcosa di insolito, di clamoroso, qualcosa che facesse notizia, qualcosa di diverso. Quando decisi di presentare la squadra all’Arena di Milano, mi venne in mente quella scena di Apocalypse Now in cui gli elicotteri piombano dall’alto. Così ci venne l’idea di far uscire i calciatori, elegantissimi nella loro nuova divisa, dagli elicotteri, salutando la folla, mentre io avrei fatto un discorso sull’orgoglio che provavo.»

All’età di quarantanove anni, quel giorno Berlusconi realizzò un altro dei suoi sogni. E dopo la riorganizzazione e il rilancio del Milan a partire da quel luglio 1986, il calcio non sarebbe stato più lo stesso.
La chiave della rinascita fu spendere enormi quantità di denaro per acquistare i migliori calciatori, ma anche scegliere allenatori e dirigenti per costruire il brand, e sviluppare un gioco nuovo più votato all’attacco. La strategia era chiara. I costi furono astronomici.

«Il Milan non è quotato in Borsa» dice Galliani, oggi vicepresidente vicario e amministratore delegato per l’area sportiva. «Così non abbiamo l’obbligo di fornire queste informazioni, ma credo si possa dire che dal 1986 il Milan è costato un po’ più di un miliardo di euro. La passione è un lusso molto costoso.»

Nel corso degli anni Berlusconi avrà sicuramente speso una fortuna, ma ha anche costruito una società che oggi vale molto. Per tanti anni, il club di Berlusconi e Galliani ha avuto senza dubbio le intuizioni giuste sulla compravendita dei calciatori e sul modo di vincere trofei su trofei. Una delle chiavi del successo sta anche nella scelta degli allenatori: alcuni predecessori di Inzaghi non erano nessuno prima di essere voluti da Berlusconi, eppure hanno saputo dimostrare di essere personalità vincenti su scala mondiale. Il primo di questa serie è Arrigo Sacchi, quarantun anni nel 1987, per due anni alla guida del Parma, in serie C1 e in B. Secondo la stampa sportiva, Sacchi non aveva abbastanza esperienza e credibilità. Berlusconi ricorda di aver deciso di ingaggiarlo dopo che il suo Parma aveva sconfitto il Milan a San Siro, eliminandolo dalla Coppa Italia.

«Pensai che Sacchi fosse l’allenatore giusto per il Milan perché avevo osservato con attenzione il gioco della sua squadra, una squadra che non aveva la filosofia difensiva tipica del calcio italiano» ricorda Berlusconi. «Per molti anni in Italia si è badato soprattutto alla difesa, in trasferta si puntava solo al pareggio, poi se in contropiede veniva il gol tanto di guadagnato. Sacchi spingeva la sua squadra ad attaccare, a giocare per vincere. Andammo a conoscerlo a Parma, io e Galliani, per un pranzo. Mi piacque subito come persona, anche se aveva un carattere non facile.»

«Sacchi aveva un carattere molto deciso» racconta. «Era difficile fargli cambiare idea. Era un uomo orgoglioso, determinato. Si dimostrò un’ottima scelta. Decidemmo insieme la campagna acquisti e riuscimmo a impostare un Milan molto offensivo, molto aggressivo.»

Galliani conferma che Sacchi aveva carattere e personalità da vendere. «Sacchi aveva il coraggio anche di lasciare fuori Marco van Basten, se per caso non si era allenato bene. Ora, da noi tifosi milanisti van Basten è considerato al pari della Madonna, è una leggenda: un giocatore che vince tre Palloni d’oro, un giocatore che con la sua Olanda vince il Campionato europeo facendo un gol meraviglioso alla Russia, un giocatore fondamentale per vincere lo scudetto e le due Coppe dei campioni. Allora in Italia c’erano due immensi campioni, Maradona e van Basten, molto diversi fra loro ma entrambi di classe infinita. Il mito di van Basten è stato alimentato anche dal fatto che ha smesso giovanissimo: gli eroi, dicevano gli antichi, muoiono giovani. Quindi gli è stata risparmiata l’inevitabile parabola discendente: nell’ultima partita prima dell’operazione alla caviglia, con il Göteborg, fece quattro gol meravigliosi, di cui uno in rovesciata. Poi ascese al cielo sportivo.

«Con Sacchi» continua Galliani «era tutto perfetto. Poi lui decise di diventare commissario tecnico della nazionale. Ma noi fummo fortunati. Arrivò un altro allenatore leggendario, un’altra delle intuizioni di Berlusconi: Fabio Capello. Era stato un grande calciatore, ma in quel momento faceva il commentatore televisivo e si occupava della nostra polisportiva. Cosa succede quando Berlusconi prende un manager ormai fuori dal calcio giocato e lo mette in panchina ad allenare il Milan? Succede che Capello vince lo scudetto del 1991-92, poi quello del 1992-93, e poi anche quello del 1993-94. Va tre volte di seguito in finale di Champions League, vincendo la coppa nel 1994. E poi rivince di nuovo lo scudetto nel 1996. Con Capello allenatore, per il Milan è stata davvero una Cavalcata delle valchirie.»

«Avevo conosciuto Capello come giocatore» ricorda Berlusconi «e ho sempre pensato che sarebbe stato un buon dirigente di una squadra. Lo invitai a frequentare una scuola per manager d’azienda, e lui lo fece. Poi gli chiesi di diventare dirigente sportivo di altre squadre del nostro gruppo, visto che noi allora avevamo società di hockey, rugby, volley e baseball. Lui fece un ottimo lavoro, così quando ci fu bisogno di un nuovo allenatore per il Milan pensai a lui. Tutta la stampa era contro di noi: i giornali scrivevano che volevo essere io il vero allenatore e che scegliendo Capello avevo messo in campo un mio maggiordomo. Ma le cose non stavano così e Capello lo dimostrò subito con una serie di successi. È una persona molto concreta, molto positiva. È stato un piacere lavorare con lui.»

Dopo Capello, il terzo grande colpo del duo Berlusconi-Galliani fu la decisione di prendere Carlo Ancelotti, che ha portato il Milan ai suoi maggiori successi nei primi anni del nuovo secolo.

«Ancelotti era un gran lavoratore, sempre aperto alle nuove idee» dice Berlusconi. «Lavorammo in totale armonia, in totale sintonia su come schierare la squadra in campo. Aveva anche un eccellente rapporto con i giocatori. Un grande allenatore non è solo competente dal punto di vista tecnico, ma deve essere anche un padre, deve saper ispirare sentimenti di stima, di rispetto, di simpatia, perfino di affetto nei suoi uomini. Ancelotti questo lo faceva benissimo. Io lo chiamavo il “papà” dei nostri ragazzi. Lui completa la terna dei grandi allenatori del Milan: Sacchi, Capello e Ancelotti. Credo sarà difficile per il futuro rimettere in campo una terna simile.»

«Secondo me Carlo Ancelotti è il più equilibrato di tutti» aggiunge Galliani. «Non è un caso che riesca a fare benissimo in tutti i club. Ha la capacità di sdrammatizzare, con la normalità ottiene risultati eccezionali. Con Carlo Ancelotti vinciamo la Coppa dei campioni che forse rimarrà scolpita per sempre nei cuori dei milanisti, quella del 2003: perché quell’anno in semifinale battiamo l’Inter e in finale, a Manchester, la Juventus. Una leggenda.»

In effetti per il Milan, dopo l’addio di Ancelotti nel 2009, le cose non sarebbero più state le stesse. Con ventisei trofei vinti (a cui si sarebbero aggiunti lo scudetto 2010-11 e la Supercoppa italiana 2011), Berlusconi poteva vantarsi di essere «il presidente più vincente della storia del calcio», ma ormai era scomparso lo spirito da Apocalypse Now: al suo posto, una serie di allenatori alle prime armi, alcuni rimasti in panchina davvero per poco tempo. Dopo Ancelotti toccò al brasiliano Leonardo, già centrocampista del Milan. Durò dodici mesi. Poi toccò a Massimiliano Allegri, che dopo lo scudetto del 2011 e la successiva Supercoppa finì secondo nel campionato seguente e poi precipitò in una striscia di sconfitte che portarono alla sua sostituzione con un altro ex centrocampista del Milan, l’olandese Clarence Seedorf. Ma Seedorf fu esonerato dopo meno di sei mesi e sostituito nell’estate 2014 dal giovane Inzaghi, fino a due stagioni prima centravanti della squadra. A parte Allegri, tutti questi coach, come Capello, non avevano mai allenato in serie A; anzi, Berlusconi sembrava essere ben contento di scegliere allenatori senza esperienza.

Al di là delle sue dichiarazioni, era chiaro che voleva uomini disposti ad ascoltarlo. «Non si tratta di una strategia o di una particolare visione del gioco, la scelta dei collaboratori è una cosa che deve puntare sull’uomo che, prima ancora della sua visione del gioco, sappia guidare i giocatori facendosi stimare. Se ingaggi un allenatore maturo, potrai contare sul vantaggio dell’esperienza. Ma un giovane avrà più fame di vittorie, più entusiasmo, e sarà più aperto ai consigli e ai suggerimenti dei dirigenti del club.»

Qualche mese più tardi, queste parole avrebbero fatto uno strano effetto, visto che il giovane allenatore privo di esperienza, lo sventurato Inzaghi, sarebbe stato esonerato per far posto al più duro ed esperto Sinisa Mihajlovic.

Berlusconi ha certamente rivoluzionato il calcio. Può andare avanti all’infinito a parlare di tattica e strategia di una partita, e della necessità dell’eleganza e dello stile nel mondo del calcio. Può aver comprato e venduto alcuni dei campioni più costosi al mondo, comprese alcune delle stelle più eccentriche e turbolente, ma resta un tradizionalista quando si tratta di regole e comportamenti. In particolare quando si arriva alla sua visione dello «stile Milan».

«Lo stile Milan è un comportamento sempre corretto, in campo e fuori dal campo» dice l’uomo il cui comportamento «fuori dal campo» è stato spesso pesantemente criticato. «Significa essere leali nei confronti degli avversari, evitare reazioni eccessive e mantenere la calma qualunque cosa succeda. E significa anche un certo modo di presentarsi. Oggi, per esempio, ci sono giocatori coperti di tatuaggi o con strane pettinature. Ai miei tempi, mi spiace usare quest’espressione, io controllavo perfino il nodo della cravatta, prima che un calciatore si presentasse a fare una dichiarazione in tv.» Non è un caso che Berlusconi citi due giocatori, due icone del Milan, due simboli dello stile Milan, dentro e fuori dal campo: «Dei vecchi giocatori di quando ho cominciato la mia missione nel Milan io ho soprattutto nel cuore Maldini e Baresi».
«Si vede» dice il presidente con un profondo sospiro «che sono di un’altra generazione. La verità è che non sopporto proprio i tatuaggi, i piercing, le capigliature stravaganti. Mi piacerebbe che il mio Milan tornasse all’eleganza e allo stile che hanno sempre fatto parte della sua storia.»

Nel salone della clubhouse non filtra più, attraverso le tende, la luce del sole; il tramonto si avvicina. Berlusconi parla con entusiasmo. Chiama più volte la squadra «il mio Milan». È un fuoco d’artificio di aneddoti, di ricordi, di emozioni vissute allo stadio. Sembra trasportato lontano nel tempo e nello spazio mentre rivive le grandi vittorie o le dolorose sconfitte della sua squadra. Adesso sta parlando di uno dei momenti più felici della sua vita, a Barcellona, quando la sera del 24 maggio 1989 il Milan vinse per 4-0 una storica finale di Coppa dei campioni contro la Steaua di Bucarest. Al Camp Nou c’erano ottantamila milanisti.

Per milioni di tifosi quella partita fu un’epifania, il momento cruciale nel quale si capì che la squadra stava diventando una leggenda.«Quella di Barcellona fu la prima vittoria internazionale del mio Milan. Giocammo una partita straordinaria, e in quel momento il Milan sembrava proprio la più forte squadra del mondo, con un gioco praticamente perfetto. Per tutta la giornata, per le strade di Barcellona non si vedevano che bandiere rossonere e tanti, tanti milanisti. Quella sera lo stadio era meraviglioso, e fu stupendo quando alla fine i tifosi sugli spalti accesero tutti insieme migliaia e migliaia di luci: fu un paradiso di stelle che durò per tutta la notte.»

Con un tono solenne e insieme emozionato, Berlusconi continua a raccontare. «Quando arrivammo in albergo, io addirittura mi affacciai al balcone per fare un discorso. Mi sembrava di essere un novello Mussolini» dice prendendosi in giro «perché i tifosi del Milan mi vollero a forza sul balcone per celebrare la vittoria. Comunque fu la mia prima vittoria in Coppa dei campioni, ed è rimasta non solo nel mio cuore, ma nel cuore di tutti gli innamorati del Milan.»

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