L'ICONOCLASTA

L’Economist: That sinking feeling (again) – Quel sentore di naufragio (di nuovo)

Se la Germania, la Francia e l’Italia non riescono a trovare un modo per riportare a galla l’economia europea – scrive l’Economist – l’euro potrebbe essere spacciato.

L’articolo di cui tutti parlano oggi in Europa, tradotto in italiano per voi.

29 agosto 2014Solo pochi mesi fa i leader dell’eurozona credevano che, avendo superato la tempesta, avrebbero alla fine ritrovato il sereno. Supportata dalla promessa di Mario Draghi, il presidente della Banca Centrale Europea, di fare “whatever it takes” per supportare la moneta, la fiducia ha attraversato di nuovo il continente. La crescita sembrava ritornare, anche se lentamente. Le problematiche nazioni periferiche si stavano riprendendo, a seguito di salvataggi e dolorose misure per tagliare i deficit di bilancio e accrescere la competitività. La disoccupazione, specialmente tra i giovani, era ancora disperatamente alta, ma, almeno, nella maggior parte dei paesi stava calando. E lo spread tra i titoli si stava assottigliando, quando il mercato finanziario aveva smesso di scommettere sul naufragio dell’euro.

Era un’illusione. Nelle recenti settimane i paesi della zona euro hanno ricominciato a imbarcare acqua. Nel secondo trimestre il loro PIL collettivo stagnava: l’Italia ricadeva nella recessione totale, il PIL francese era piatto e persino la potente Germania aveva inaspettatamente visto una larga caduta nella produzione. Il terzo trimestre sembra piuttosto cagionevole, in parte perché l’eurozona soffrirà di un ulteriore strascico delle sanzioni occidentali in Russia. Nel frattempo l’inflazione è scesa pericolosamente in basso, fino a circa 0.4%, molto sotto l’obbiettivo della Banca Centrale Europea fissato intorno al 2%, scatenando il timore che l’intera zona possa cadere preda di deflazione radicata. I rendimenti sul bond Tedesco fluttuano sotto l’1%, un altro segnale di caduta dei prezzi. La zona euro si mantiene (oppure barcolla) in estremo contrasto con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, le cui economie stanno godendo di una crescita sostenuta.

Quella che iniziò più di quattro anni fa come una crisi finanziaria e del debito sovrano si è deteriorata fino all’attuale “crisi della crescita” che sta avvolgendo le tre più grandi economie. La Germania vacilla sull’orlo della recessione. La Francia è impantanata nella stagnazione. Il Pil italiano è a malapena al di sopra del livello in cui si trovava quindici anni fa, quando è stata introdotta la moneta unica. Poiché questi tre paesi valgono due terzi del Pil della zona euro, la crescita in posti come la Spagna e l’Olanda non può compensare il loro torpore.

Le cause dietro ai nuovi mali dell’Europa sono tre problemi ben noti e collegati tra loro. Prima di tutto, c’è carenza di leader politici con il coraggio e la convinzione per spingere sulle riforme strutturali allo scopo di incrementare la competitività e, alla fine, riavviare la crescita: i grandi paesi hanno sprecato i due anni comprati dall’impegno di Draghi, quel “whatever it takes”. Secondo poi, l’opinione pubblica non è convinta dell’urgente necessità di effettuare cambiamenti profondi e radicali. Terzo, malgrado gli sforzi di Draghi, la struttura monetaria e fiscale è troppo severa, soffoca la crescita, cosa che rende più difficile compiere riforme strutturali.

Da una parte all’altra della zona euro si possono osservare diverse manifestazioni di queste problematiche. Ma il paese che più drammaticamente le incarna tutte e tre è la Francia. Questa settimana il suo presidente socialista, sotto attacco, è stato obbligato a un rimpasto di governo allo scopo di buttare fuori Arnaud Montebourg il quale, nonostante fosse ministro dell’economia, è stato il più ostinato critico da sinistra del suo stesso governo. Hollande, salito al potere nel 2012 promettendo un futuro indolore, difficilmente potrebbe essere definito un riformista thatcheriano. Ma da quando ha incaricato Manuel Valls di prendere il posto di primo ministro, a marzo, ha quantomeno abbracciato il principio di tagli alla spesa pubblica, tasse più basse e riforme strutturali.

In teoria, un nuovo governo riformatore più coeso potrebbe fare progressi, ma l’opinione pubblica non è lontanamente preparata a questo. Hollande non è solo profondamente impopolare: a differenza dell’italiano Matteo Renzi, che ha coraggiosamente perorato la causa delle riforme dure, il presidente francese ha fallito nel convincere gli elettori che i cambiamenti dolorosi, compreso un ridimensionamento dello Stato, sono inevitabili. Invece, Montebourg e i suoi amici offrono una visione seducente secondo la quale, se solo l’euro-zona rottamasse le sue regole e permettesse deficit di bilancio più importanti e una spesa pubblica sufficientemente generosa, non sarebbero più necessarie riforme dolorose perché l’economia, miracolosamente, si porterà da sé fuori dal pericolo senza alcun problema.

Le argomentazioni di Montebourg sono tanto più seducenti poiché ha ragione sul terzo problema dell’Europa: la troppa austerità, principalmente imposta sul continente dalla Germania. Draghi, all’annuale raduno economico di Jackson Hole, ha già implicitamente ammesso che la politica monetaria e fiscale nella zona euro è troppo restrittiva. Ha accennato di essere favorevole al quantitative easing, che è stato utilizzato sia dagli Stati Uniti sia dalla Gran Bretagna, e si è speso affinché le politiche fiscali facciano di più per stimolare la crescita – un messaggio chiaramente diretto alla cancelliera tedesca, Angela Merkel. È lei il leader che più fermamente insiste sulla necessità di restare aderenti alle regole sulla disciplina fiscale della zona euro, così come la Bundesbank, fortissimamente contraria al quantitative easing.

Nonostante le tenebre, dovrebbe esserci spazio per un baratto. Se Hollande e Renzi sapranno mostrare di essere sinceri riguardo alle riforme strutturali, la Merkel potrebbe essere disponibile a tollerare una più morbida posizione fiscale (inclusi maggiori investimenti pubblici in Germania) e una politica monetaria più permissiva. Chiudete gli occhi e immaginate i tre leader mentre lavorano con la Commissione Europea per portare a compimento il mercato unico e permettere che venga realizzato un accordo commerciale con gli Stati Uniti. Purtroppo, nel mondo reale, la Merkel ha ben poche ragioni per fidarsi dell’Italia o della Francia: non appena la pressione esterna su di loro si è allentata, hanno prontamente fatto marcia indietro sulle promesse di riforme. Mentre lei ha fatto sì che venisse nominato come presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, il candidato del non fare niente.

Quindi sarà difficile. Ma senza una nuova spinta dai leader del continente, la crescita non ritornerà e la deflazione potrebbe prendere piede. Il Giappone ha sofferto per un decennio di perdita della crescita negli anni ’90, e sta ancora avendo difficoltà. Ma a differenza del Giappone, l’Europa non è una singola nazione coesa. Se l’unione monetaria non porta altro che stagnazione, disoccupazione e deflazione, allora qualcuno potrà anche votare per l’abbandono dell’euro. Grazie alla promessa di Draghi di mettere un limite al debito dei governi, il rischio, per il mercato, che pressioni finanziare possano innescare uno sfaldamento è stato scongiurato. Ma il rischio politico che una o più nazioni decidano di precipitarsi fuori dalla moneta unica è sempre crescente. La crisi dell’euro non è scongiurata, è in attesa oltre l’orizzonte.

(Traduzione di Luna De Bartolo)

VIA/ The Economist

ULTIMI ARTICOLI