L'ICONOCLASTA

La farsa a Washington continua: Obama alza la posta e grida ai repubblicani che un default degli Usa sarebbe come «una bomba atomica». I repubblicani sono divisi al loro interno tra falchi e colombe. E la Cina, il maggiore creditore singolo, ammonisce la Casa Bianca.

9 ottobre 2013 – Se pensavate davvero che la questione dei falchi e colombe all’interno del Pdl fosse importante, forget it.

La vera follia è quella ora in atto a Washington.

I falchi del Tea Party insieme ad altri della destra del Partito repubblicano – fomentati dall’ambizioso e provinciale cowboy del Texas, Senator Ted Cruz – continuano a comportarsi come degli irresponsabili, fregandosene di tutto e di tutti, nel tentativo di abolire l’Obamacare (la politica sanitaria) in cambio di un accordo che porrebbe fine allo shutdown del governo e permetterebbe l’innalzamento del tetto del debito americano. Le colombe del Grand Old Party non sanno come fare.

E Barack Obama, che rifiuta di negoziare con i repubblicani finché non ritirano le loro minacce, ora alza la posta con una retorica che mi fa venire in mente Il dottor Stranamore. Mentre il Fondo monetario internazionale ricorda al mondo che gli Usa non possono permettersi un default tecnico, il quale rischierebbe di scatenare una recessione mondiale, il presidente degli Stati Uniti cita il suo amico Warren Buffett e afferma che il default sarebbe come «una bomba atomica».

Poi rincara la dose, dice che dichiarare l’insolvenza sarebbe «roba da pazzi, catastrofico, con il rischio di caos economico», ma invece di fare come avrebbe fatto Bill Clinton, grande negoziatore, Obama rifiuta di trattare finché il Congresso non approva il budget e alza il tetto del debito, entro il 17 ottobre. Come dire: io non tratto finché voi non vi arrendete.
Obama, cui manca l’esperienza e quel tocco di empatia e furbizia che aveva Clinton, sbaglia a gridare. E quindi non deve sorprendersi quando la Cina e il Giappone ammoniscono la Casa Bianca e addirittura il primo ministro della piccola Singapore critica duramente gli Stati Uniti e chiede ai partititi americani: «get your act together». Ovvero, datevi una regolata.

In che mondo viviamo quando Pechino, il maggior creditore estero con 1.100 miliardi di dollari di buoni del Tesoro, ricorda alla Casa Bianca che i giochi politici a Washington minacciano di destabilizzare i mercati finanziari globali?

E che figure fa Obama quando si trova costretto a rispondere alla Cina dicendo che «gli Stati Uniti hanno sempre pagato i loro conti e continueranno a farlo»?

Intendiamoci: alla fine a Washington ci sarà una soluzione, probabilmente un minuto prima dello scoccare della mezzanotte del 17 ottobre. Ma il danno alla credibilità degli Usa avrà strascichi molto più duraturi. E questi giochi politici, in cui nessuno ha ragione, né i repubblicani né Obama, sono una vergogna.

L’unica notizia positiva che viene fuori da Washington è la nomina di Janet Yellen a capo della Banca centrale americana, la Fed, di cui era già vicepresidente.

Non si tratta soltanto dell’enorme piacere nel vedere una donna al timone di questa istituzione, ma anche della grande soddisfazione che mi provoca il ritiro del cattivo ed arrogante Larry Summers. La Yellen è più calma, più ragionevole ed efficace di Summers, che è invece un cafone. Brillante, ma pur sempre un cafone.

A differenza della Banca centrale europea, che deve usare la politica monetaria soprattutto per tenere sotto controllo l’inflazione, la Fed – grazie anche alla Yellen, che ha sempre ha sempre detto che bisogna combattere la disoccupazione – ha tra i suoi obiettivi la lotta contro la piaga dei senza lavoro.

Janet Yellen, che ha 67 anni, prende in mano le sorti della Banca centrale in un momento in cui negli Usa la ripresa rimane fragile, la disoccupazione resta alta e i tassi di interesse bassi. Dopo questo autunno di melodramma e dramma vero sulla questione del tetto del debito, è confortante avere come nuovo presidente una persona di grande esperienza e serietà.

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