20 ottobre 2013 – La stabilità politica serve a un Paese come l’Italia per scongiurare danni all’economia, per evitare che il caos crei terreno fertile per gli attacchi degli speculatori della finanza, che lo spread si alzi e ci faccia pagare troppi interessi sul debito nazionale, ancora oltre il 132 percento del Pil. Così ci ha insegnato, così ci ha detto negli ultimi due anni il presidente della Repubblica.
Serve la stabilità politica anche perché, ha ribadito più volte il capo dello Stato, soltanto così si può dare la possibilità a un governo tecnico (Monti) o a un governo di larghe intese (Letta-Alfano) di avviare una serie di politiche economiche e riforme che ci aiutino ad agganciare una ripresa (debole) e a promuovere la crescita e l’occupazione.
Questo è sempre più vero in un Paese in cui non gira denaro, dove le piccole imprese sono alla frutta e non riescono a ottenere crediti dalle banche, la disoccupazione giovanile ha raggiunto il record storico del 40% e quasi 10 milioni di italiani sono sotto la soglia di povertà.
Ma se la stabilità politica è garantita da un voto di fiducia, e la prima cosa che il governo fa dopo è di offrirci una retorica molto coraggiosa seguita da una legge di stabilità non solo poco coraggiosa, ma che contiene iniziative risibili come il regalino di 14 euro al mese nella busta paga dei lavoratori o un taglio del cuneo fiscale per le imprese da prefisso telefonico (0,33%), allora c’è un problema di fondo.
Ed è in questo contesto che non riesco a capire per quale motivo il presidente della Repubblica abbia deciso di entrare nella politica dei partiti difendendo con forza la legge di stabilità quando è palese, ovvio, evidente a mezzo mondo, alla totalità degli italiani e ad alcuni dei più autorevoli osservatori internazionali, come il Financial Times di Londra, che questa legge di stabilità è da buttare.
Lascio ad altri la spiegazione di questo rebus, ma faccio notare ai miei lettori che quando una legge di stabilità è universalmente condannata e assomiglia una forma di immobilismo che non aiuta né la crescita né l’occupazione, allora la soluzione non dovrebbe essere di insistere nella sua difesa ma di modificarla e cercare di migliorarla in Parlamento.
Le critiche che piovono sulla legge di stabilità sono quasi bipartisan, da Susanna Camusso della CGIL a Giorgio Squinzi di Confindustria.
Yoram Gutgeld, il consigliere economico di Matteo Renzi, ha definito la legge di stabilità «inesistente». Bisogna dargli ragione.
Ma ora arriva anche la critica, durissima, di Mario Monti, l’uomo scelto da Giorgio Napolitano due anni fa.
A me interessa poco la sua polemica con il figlio adottivo di Arnaldo Forlani, anche se è notevole che Monti parli non solo con amarezza ma anche con onestà intellettuale, facendo un’autocritica senza precedenti nella politica italiana quando dice: «Mi rivolgo a chi non ha votato Scelta Civica, pare siano tanti, perché avevamo Casini. Può essere che avessero ragione loro».
Ma la critica più dura arriva quando Monti dice: «Letta fa bene a mantenere i conti a posto, ma serve la crescita, e per questo servono le riforme. Questo governo, nato come il governo del fare, sta diventando il governo del disfare».
Al di là di questa bagarre tra politici, temo che dopo le contorsioni, i tradimenti e i veleni degli ultimi giorni, stiamo assistendo non soltanto a un immobilismo sul fronte dell’economia ma a una paralisi dell’intero sistema.
Quello che vedo in questi giorni fa paura. Significa che il Paese è sempre più a rischio.